Non avevo l’impressione di tornare a casa. La mia casa era la gelida brughiera a nordest. Le paludi a nord di Port Romance erano state invece il luogo dove avevo scelto di vivere e di lavorare. Questa città e questi edifici universitari non avevano mai fatto parte della mia vita e per me non avevano più importanza delle fantastiche storie dei Canti del vecchio poeta.
Ai piedi di una torre mi fermai per riprendere fiato e meditare su quest’ultimo pensiero. Se l’offerta del poeta era reale, per me ora le "fantastiche storie dei Canti" avrebbero avuto importanza. Pensai a Nonna, a come recitava quel poema… ricordai le notti passate a badare alle pecore nelle montagne del nord, i carrozzoni a batteria raccolti in cerchio, i bassi fuochi di cottura del tutto insufficienti a diminuire lo splendore delle costellazioni e degli sciami di meteore… ricordai il tono lento e misurato di Nonna che terminava ogni stanza e aspettava che gliela ripetessi, ricordai la mia impazienza (avrei preferito leggere un libro a lume di lanterna) e sorrisi al pensiero che stasera avrei cenato con l’autore di quei versi. Anzi, il vecchio poeta era addirittura uno dei sette pellegrini di cui parlava il poema.
Scossi di nuovo la testa. Troppi eventi. Troppo in fretta.
C’era qualcosa di bizzarro, nella torre. Più larga e più massiccia di quella in cui mi ero svegliato, aveva una sola finestra, un architrave aperto, a trenta metri da terra. Cosa ancora più interessante, un muro di mattoni sostituiva la porta originaria. Con l’occhio allenato da stagioni trascorse a sistemare mattoni e pietre sotto la guida di Avrol Hume, calcolai che la porta era stata chiusa prima che tutti abbandonassero quella zona, un secolo fa… ma non molto di più.
Ancora oggi non so che cosa, di quell’edificio, m’incuriosì, mentre c’erano tante altre rovine da esplorare. Ricordo d’avere guardato il ripido fianco di montagna dietro la torre e di aver notato la massa di frondosi chalma che ricoprivano l’edificio come edera dalla spessa corteccia. Chi si arrampicasse sul fianco della montagna, pensai allora, ed entrasse nel boschetto di chalma, proprio in quel punto, potrebbe strisciare sul quel ramo sporgente e si troverebbe a sfiorare il davanzale di quella solitaria finestra…
Scossi di nuovo la testa. Che stupidaggine! Nel caso migliore, l’infantile spedizione si sarebbe risolta in abiti strappati e mani graffiate. Nel caso peggiore, in una caduta da trenta metri sulle pietre del lastrico. Perché correre il rischio? Cosa poteva esserci, in quella vecchia torre murata, a parte ragni e ragnatele?
Dieci minuti dopo ero ben avanti sul nodoso ramo di chalma e procedevo un centimetro alla volta, cercando di restare appeso grazie alle fessure tra le pietre o ai tralci più grossi dei rampicanti. Il ramo cresceva contro la parete di pietra e quindi non potevo mettermi a cavalcioni, ma dovevo avanzare strisciando sulle ginocchia, perché i rampicanti in alto non mi permettevano di stare in piedi: l’impressione d’essere allo scoperto, spinto verso l’esterno, era terrificante. Ogni volta che il vento d’autunno scuoteva le fronde e i rami, smettevo d’avanzare e badavo solo a restare aggrappato.
Finalmente arrivai alla finestra e allora cominciai a imprecare sottovoce. I miei calcoli, così facili dal cortile, trenta metri più in basso, erano leggermente inesatti. In realtà il davanzale della finestra si trovava circa tre metri più in alto del ramo di chalma. In quel tratto le pietre non offrivano appigli. Per raggiungere il davanzale potevo solo spiccare un balzo e augurarmi che le dita riuscissero a fare presa. Era una follia. Niente, nella torre, poteva giustificare un simile rischio.
Aspettai che il vento calasse, presi lo slancio e spiccai il balzo. Per un istante di terrore graffiai con le dita la pietra sgretolata e la polvere, spezzandomi le unghie, senza trovare un appiglio; poi incontrai i resti dell’antico davanzale e riuscii a fare presa. Mi tirai su, ansimando, strisciando sui gomiti e strappandomi la camicia. Con le morbide scarpe avute da A. Bettik raschiai le pietre per fare leva.
Alla fine mi ritrovai rannicchiato sul davanzale e solo allora mi domandai come diavolo avrei fatto a ridiscendere sul ramo di chalma. Il problema divenne molto più serio appena scrutai nella penombra della torre.
— Merda santa — mormorai, a nessuno in particolare. Proprio sotto il davanzale c’era un vecchio pianerottolo di legno, ma in pratica la torre era vuota. Dalla finestra i raggi di sole illuminavano, sopra e sotto il pianerottolo, pezzi di una scala marcia che seguiva a chiocciola la parete interna, un po’ come i rampicanti avvolgevano l’esterno; ma la parte centrale della torre era fitta tenebra. Diedi un’occhiata in alto e a una trentina di metri scorsi puntini di luce trapelare da quello che forse un tempo era stato un soffitto di legno e mi resi conto che l’edificio era poco più d’un silo per granaglie abbellito, un enorme cilindro di pietra alto sessanta metri. Non c’era da stupirsi che avesse avuto bisogno di una finestra sola. Né che la porta fosse stata murata ancora prima che la gente sfollasse da Endymion.
Sempre appollaiato sul davanzale (non mi fidavo a scendere sul pianerottolo) scossi la testa: un giorno o l’altro la curiosità m’avrebbe ucciso.
Poi, scrutando l’oscurità così diversa dal luminoso pomeriggio esterno, mi accorsi che nella torre il buio era eccessivo. Non riuscivo a vedere la parete opposta, né la scala dall’altra parte. I raggi di sole illuminavano l’interno di pietra, mi consentivano di vedere la scala di legno e l’intero cilindro per alcuni metri più in alto… ma, dritto davanti a me, l’interno non c’era, semplicemente.
— Cristo — mormorai. Qualcosa occupava la torre.
Piano piano, attento a mantenere la maggior parte del peso sulle braccia aggrappate al davanzale, mi calai sul pianerottolo. Il legno scricchiolò, ma pareva abbastanza solido. Senza mollare la presa, lasciai andare sul ripiano quasi tutto il peso e mi girai a guardare.
Impiegai un intero minuto per capire che cosa avevo davanti agli occhi. Una spazionave occupava la torre come un proiettile nella camera di scoppio di un’antica rivoltella.
Mi staccai dalla finestra, lasciai che tutto il peso gravasse sul pianerottolo, senza badare se il legno mi avrebbe sostenuto, e avanzai per guardare meglio.
La nave non era lunga, in rapporto alla media dei veicoli spaziali: forse toccava i cinquanta metri ed era assai snella. Il metallo dello scafo, se metallo era, di un nero opaco, pareva assorbire la luce: non aveva una patina lucente, non mandava riflessi. Scorgevo il contorno della nave solo come contrasto con la parete di pietra, nel punto dove la luce non veniva più riflessa.
Nemmeno per un istante dubitai che fosse una nave spaziale: era fin troppo astronave. Una volta avevo letto che su centinaia di pianeti i bambini, per disegnare una casa, ancora adesso tracciano un quadrato con un triangolo in cima e una nuvoletta di fumo che esce da un camino rettangolare… anche se abitano un modulo a crescita organica di un albero residenziale ricavato dall’RNA. Analogamente disegnano le montagne come piramidi tipo il Matterhorn, anche se quelle che vedono nei dintorni hanno la cima arrotondata come le alture alla base dell’altopiano Punta d’Ala. Non ricordo quale sia la ragione, secondo l’autore dell’articolo: memoria razziale, forse, o il fatto che il cervello è predisposto per certi simboli.
L’oggetto che guardavo, che scrutavo, che vedevo soprattutto come spazio negativo, non era tanto astronave, quanto ASTRONAVE.
Ho avuto occasione di vedere immagini dei più antichi razzi della Vecchia Terra… pre-Pax, pre-Caduta, pre-Egemonia, pre-Egira, diamine, quasi pre-Tutto… ed erano simili a quella chiazza di tenebra. Alta, sottile, rastremata alle estremità, appuntita in cima e munita di pinne alla base… guardavo la perfetta immagine simbolica dell’ASTRONAVE.