— Stronzate — dice l'uomo col coltello. Negli occhi ha di nuovo quella luce malata, folle.
— Solo un momento — dice il suo socio. Colpisce con uno schiaffo il Console, forte, una volta. — Allora, vecchio, dove sarebbe questa nave piena di oro?
Il Console sente il sapore del sangue. — A monte del fiume. Non sul fiume, nascosta in un affluente.
— Già — dice l'uomo col coltello, appoggiando di piatto la lama filo-zero contro il collo del Console. Non ha bisogno di vibrare un colpo, per tagliare la gola del Console: gli basta ruotare la lama. — Sono tutte stronzate, dico io. Perdiamo solo tempo.
— Ancora un momento — replica l'altro, brusco. — A che distanza?
Il Console pensa agli affluenti sorvolati nelle ultime ore. È tardo pomeriggio. Il sole quasi tocca la linea di una macchia di alberi, a ovest. — Appena sopra le chiuse Karla — dice.
— Allora perché volavi su quel giocattolo, invece di scendere il fiume per chiatta?
— Andavo a cercare aiuto — dice il Console. L'adrenalina è svanita: ora sente una stanchezza assai prossima alla disperazione. — C'erano troppi… troppi banditi, lungo le rive. La chiatta sembrava un grosso rischio. Il tappeto Hawking era… più sicuro.
L'uomo di nome Chez ride. — Metti via il coltello, Obem. Facciamo una passeggiata, eh?
Obem scatta in piedi. Impugna ancora il coltello, ma ora la lama, e la furia, sono rivolte al socio. — Sei rincoglionito? Hai la testa piena di merda? Racconta stronzate per salvarsi la pelle.
Chez non batte ciglio. — Certo, forse conta palle. Che ce ne frega, eh? Le chiuse sono a meno di mezza giornata di cammino e tanto andiamo da quella parte, no? Niente barca, niente oro, e gli tagli la gola, eh? Lentamente. Se c'è l'oro, fai lo stesso il lavoro, un colpo di lama, ma sei ricco, eh?
Per un secondo Obem sta in bilico fra rabbia e ragione; si gira di lato, vibra la lama di ceramica a filo-zero contro un neville dal tronco spesso otto centimetri. Ha il tempo di girarsi e accovacciarsi davanti al Console, prima che la gravità dica all'albero che è appena stato tagliato di netto: il neville cade verso la sponda del fiume, con uno schianto di rami spezzati. Obem afferra il Console per la camicia. — E va bene, uomo dell'Egemonia, andiamo a vedere cosa troviamo. Parla, corri, inciampa, barcolla, e ti affetto dita e orecchie, solo per tenermi in esercizio, eh?
Il Console si alza a fatica. I tre si tengono di nuovo al riparo dei cespugli e degli alberi bassi. Il Console cammina tre metri dietro Chez e precede Obem di altrettanto. Fa a piedi la stessa strada dell'andata, si allontana dalla città, dalla nave, dall'ultima possibilità di salvare Sol e Rachel.
Trascorre un'ora. Il Console non riesce a escogitare un piano astuto da mettere in atto quando arriveranno agli affluenti e non troveranno la chiatta. Diverse volte Chez segnala di fare silenzio e di nascondersi, una volta al rumore di ragnatelidi che svolazzano fra i rami, un'altra perché sulla riva opposta c'è un po' di trambusto, ma non si vede segno di esseri umani. Né di possibile aiuto. Il Console ricorda gli edifici bruciati lungo il fiume, le baracche deserte e i moli abbandonati. Il terrore dello Shrike, la paura di essere lasciati agli Ouster e mesi di saccheggi a opera di canaglie della FAD hanno reso terra di nessuno tutta la zona. Il Console escogita scuse e modi per perdere tempo, poi li scarta. Ha solo una speranza: arrivare abbastanza vicino alle chiuse da buttarsi nell'acqua profonda e rapida, tenersi a galla nonostante le mani legate dietro la schiena e nascondersi nel labirinto di isolotti più a valle. Ma è tanto stanco che non riuscirebbe a nuotare neppure se avesse le mani libere. E le armi dei due lo centrerebbero facilmente, anche se avesse dieci minuti di vantaggio fra le rocce sporgenti e gli isolotti. Il Console è troppo stanco per avere idee brillanti, troppo anziano per essere coraggioso. Pensa alla moglie e al figlio, morti ormai da parecchi anni, uccisi nel bombardamento di Bressia da uomini altrettanti privi di onore di questi due banditi. Ha solo il rimpianto di avere mancato alla promessa di aiutare gli altri pellegrini. E quello di non vedere come andrà a finire.
Dietro di lui, Obem sputacchia. — Merda, Chez! E se ci fermiamo, lo affettiamo un poco e gli facciamo sciogliere la lingua, eh? Poi andiamo da soli alla chiatta, se esiste.
Chez si gira, si toglie dagli occhi il sudore, osserva con aria pensierosa e accigliata il Console. — Ehi, già, forse hai ragione. Ma con calma e senza chiasso, amico. E che sia in grado di parlare, verso la fine, eh?
— Certo — sogghigna Obem. Si mette in spalla il fucile ed estrae il filo-zero.
— FERMI! — Il grido rimbomba dall'alto. Il Console cade carponi; i due banditi ex FAD si tolgono di tracolla i fucili, con la rapidità dovuta alla lunga pratica. C'è una corsa impetuosa, un rombo, un frustare di rami e polvere tutt'intorno; il Console alza gli occhi in tempo per vedere un'increspatura nel cielo coperto della sera: ha l'impressione che dalle nuvole una massa scenda dritto su di loro. Chez alza il fucile a fléchettes e Obem punta il lanciabombe e tutt'e tre cadono, rotolano, non come soldati colpiti, non come elementi di rinculo di una equazione balistica, ma come l'albero abbattuto da Obem poco prima.
Il Console finisce bocconi nella polvere e nella ghiaia, giace disteso senza battere ciglio, incapace di muovere le palpebre.
"Storditore" pensa, con sinapsi divenute lente come olio vecchio. Si scatena un ciclone circoscritto, mentre un oggetto grande e invisibile atterra fra i corpi nella polvere e la sponda del fiume. Il Console ode il gemito di un portello che si apre e il ticchettio di turbine a repulsione che scendono sotto il livello critico. Ancora non può battere le palpebre, tantomeno alzare la testa; il suo campo visivo è limitato a diversi ciottoli, un panorama di dune sabbiose, una piccola foresta di erba e una solitaria formica-architetto, enorme a così breve distanza, che sembra provare un improvviso interesse per l'occhio umido e fisso del Console. La formica si gira per superare in fretta il mezzo metro che la separa dal boccone prelibato; il pensiero del Console è un grido, "Sbrigatevi", rivolto ai passi calmi dietro di lui.
Mani sotto le ascelle, borbottio, una voce nota, ma tesa: — Diavolo, ha messo su peso!
I talloni del Console strisciano nella polvere, passano sulle dita di Chez che si contraggono a caso… o forse sono quelle di Obem: il Console non può girare la testa per guardare di chi si tratta. Né può vedere chi l'ha salvato, finché questi non lo solleva, con una litania di imprecazioni sottovoce, quasi nell'orecchio, e non lo spinge dentro la torretta di dritta dello skimmer demimetizzato, sul morbido cuoio del sedile.
Il governatore generale Theo Lane compare nel campo visivo del Console, con un'aria da ragazzino, ma anche da diavolo, quando il portello si chiude e la luce interna gli illumina di rosso il viso. Theo si sporge ad agganciare al petto del Console la rete di sicurezza. — Mi dispiace, ma sono stato costretto a stordirla con gli altri due — dice. Si siede al posto di guida, blocca la propria rete, aziona l'onnicomando. Lo skimmer vibra, si solleva, rimane librato per un secondo, prima di virare a sinistra come una piastra su cuscinetti senza attrito. L'accelerazione preme il Console contro il sedile.
— Non avevo molta scelta — dice Theo, superando i rumori interni dello skimmer. — Queste baracche sono armate soltanto di storditore antisommossa. Il modo più semplice era metterlo al minimo, stordire tutti e portarla via in fretta. — Con il solito colpetto di dito spinge più su gli antiquati occhiali e si gira sorridendo verso il Console. — Vecchio proverbio dei mercenari: "Uccidili tutti e lascia che sia Dio a fare la cernita".
Il Console riesce a muovere la lingua quanto basta a emettere un suono e sbavare un poco sulla guancia e sul sedile di pelle.