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Sol allattava la piccina, con una delle ultime confezioni nutripac. La sommità della testolina era arrossata dal sole, nonostante gli sforzi di Sol per ripararla quand'erano all'aperto. — Potrebbe trovarsi in una delle Tombe già esaminate, se ci sono sezioni fuori fase temporale rispetto a noi — disse Sol. — È una teoria di Arundez. Per lui le Tombe sono edifici tetradimensionali pieni di complesse pieghe nello spaziotempo.

— Magnifico! — sbottò Lamia. — Quindi, anche se Fedmahn Kassad fosse qui, non lo vedremmo.

— Bene — disse il Console, alzandosi con un sospiro di stanchezza. — Almeno concludiamo l'opera. Rimane ancora una Tomba.

Il Palazzo dello Shrike si trovava un chilometro più avanti nella valle, su un livello inferiore rispetto alle altre Tombe, nascosto da una curva della parete rocciosa. L'edificio era meno esteso della Tomba di Giada, ma l'intricata architettura — flange, guglie, contrafforti, colonne di sostegno che formavano archi su archi in un caos controllato — lo facevano sembrare più vasto.

L'interno del Palazzo dello Shrike consisteva di una singola stanza piena di echi, con il pavimento irregolare formato da migliaia di elementi ricurvi e snodati che ricordarono a Lamia costole e vertebre di una creatura fossile. Quindici metri più in alto, la cupola era intersecata da decine di "lame" di cromo che s'intrecciavano nelle pareti per emergere infine sopra l'edificio, come spine dalla punta d'acciaio. Il materiale della cupola stessa, leggermente opaco, conferiva allo spazio racchiuso una sfumatura densa, lattea.

Lamia, Sileno, il Console, Weintraub e Duré si misero a chiamare a gran voce Kassad: le voci echeggiarono e risonarono senza risultato.

— Nessun segno di Kassad, né di Het Masteen — disse il Console, mentre uscivano. — Forse lo schema sarà proprio questo… ciascuno di noi scomparirà, finché non resterà uno solo.

— E l'ultimo vedrà esaudito il proprio desiderio, come predicono le leggende del Culto Shrike? — domandò Brawne Lamia. Si sedette sul bordo roccioso del letto di fusione davanti al Palazzo dello Shrike e lasciò penzolare nel vuoto le gambe.

Paul Duré alzò il viso al cielo.

— Non posso credere che il desiderio di padre Hoyt fosse morire in modo che io potessi vivere di nuovo.

Martin Sileno lo guardò a occhi socchiusi.

— E quale sarebbe, padre, il suo desiderio?

Duré non ebbe esitazioni.

— Vorrei… pregherei Iddio… che alla razza umana, una volta per tutte, fosse tolto il flagello di queste duplici oscenità, la guerra e lo Shrike.

Seguì un momento di silenzio, in cui il vento del primo pomeriggio inserì gemiti e sospiri.

— Nel frattempo — disse Brawne Lamia — dobbiamo procurarci del cibo o imparare a vivere d'aria.

Duré annuì.

— Come mai avete portato con voi provviste così scarse?

Martin Sileno si mise a ridere e declamò a voce alta:

Non si curò del vino, né della mistura di birre
non si curò del pesce, della carne, dell'uccellagione,
e gli intingoli valutò meno che pula;
sdegnò i porcari al boccale di baldoria,
né sedette spalla a spalla con gentaglia licenziosa,
né di scaltre amanti sul seggio dello scorno,
ma ruscelli d'acqua quest'anima di Pellegrino
anelò e tutto il suo cibo fu aria di bosco
pur se spesso s'appagò di rare violaciocche.

Duré sorrise, chiaramente perplesso.

— Ci aspettavamo di trionfare o di morire la prima notte — spiegò il Console. — Non avevamo previsto una lunga permanenza.

Brawne Lamia si alzò e si spazzolò i calzoni. — Vado — disse. — Dovrei farcela a portare cibo per quattro o cinque giorni, se trovo razioni da campo o le provviste ammassate alla rinfusa che abbiamo visto.

— Vado anch'io — disse Martin Sileno.

Ci fu silenzio. Durante la settimana di pellegrinaggio, in una decina di occasioni il poeta e Lamia erano quasi venuti alle mani. Una volta lei aveva minacciato di ucciderlo. Brawne Lamia lo fissò per un lungo momento. — Va bene — disse infine. — Fermiamoci alla Sfinge a prendere gli zaini e le bottiglie per l'acqua.

Il gruppetto risalì la valle, mentre le pareti rocciose occidentali proiettavano ombre sempre più lunghe.

17

Dodici ore prima, il colonnello Fedmahn Kassad era passato dalla scala a chiocciola al piano più alto ancora intatto del Monolito di Cristallo. Le fiamme si alzavano da ogni lato. Dagli squarci provocati nella facciata di cristallo dell'edificio, Kassad vedeva il buio. La tempesta soffiava nelle aperture sabbia vermiglia, fino a riempire l'aria come sangue in polvere. Kassad si mise il casco.

Dieci passi più avanti, Moneta aspettava.

Era nuda, sotto la dermotuta a energia: l'effetto era quello dell'argento vivo versato direttamente sulla carne. Kassad vedeva le fiamme riflesse sulla curva del seno e del fianco, la piega di luce nel cavo della gola e dell'ombelico. Il lungo collo e il viso erano scolpiti nel cromo, perfettamente levigati. Gli occhi mostravano la duplice immagine riflessa dell'alta ombra che era Fedmahn Kassad.

Il colonnello alzò il fucile d'assalto e spostò il selettore manuale su fuoco a pieno spettro. Dentro la tuta blindata, si tese anticipando l'attacco.

Moneta mosse la mano: dalla sommità della testa alla base del collo la dermotuta svanì. Adesso lei era vulnerabile. Kassad provò l'impressione di conoscere ogni sfaccettatura di quel viso, ogni poro, ogni follicolo. I corti capelli castani della donna ricadevano mollemente a sinistra. Gli occhi erano sempre gli stessi, verdi, grandi, curiosi, sorprendenti per la profondità. Le labbra piene esitavano ancora sull'orlo di un sorriso. Kassad notò l'arco lievemente inquisitivo del sopracciglio, le piccole orecchie che aveva baciato e in cui aveva bisbigliato tante volte, la morbida gola cui aveva accostato la guancia per sentire le pulsazioni.

Alzò il fucile e lo puntò contro Moneta.

— Chi sei? — domandò la donna. La voce era morbida e sensuale, come Kassad la ricordava, con la lieve cadenza altrettanto elusiva.

Dito sul grilletto, Kassad esitò. Avevano fatto l'amore decine di volte, si erano conosciuti per anni interi, nei suoi sogni e nel loro panorama amoroso delle simulazioni militari. Ma se lei si muoveva davvero all'indietro nel tempo…

— Lo so — continuò la donna, con voce calma, chiaramente inconsapevole della pressione che Kassad aveva iniziato a esercitare sul grilletto. — Sei colui che il Signore della Sofferenza ha promesso.

Kassad si sentiva mancare l'aria. Parlò con voce rauca, tesissima. — Non ti ricordi di me?

— No. — Lei piegò di lato la testa, lo guardò con aria perplessa. — Ma il Signore della Sofferenza ha promesso un guerriero. Eravamo destinati a incontrarci.

— Ci siamo incontrati molto tempo fa — riuscì a dire Kassad. Il fucile avrebbe automaticamente mirato al viso, cambiando a ogni microsecondo lunghezze d'onda e frequenze, fino a sopraffare le difese della dermotuta. Subito dopo i raggi laser, avrebbe sparato fléchettes e pulsodardi.

— Non lo ricordo — disse lei. — Ci muoviamo in direzioni opposte lungo il flusso generale del tempo. Con quale nome mi conosci, nel mio futuro, nel tuo passato?

— Moneta — ansimò Kassad, ordinando alla mano e al dito di aprire il fuoco.

Lei sorrise, annuì. — Moneta. La figlia di Mnemosine. C'è un'ironia crudele, nel nome.

Kassad ricordò il tradimento della donna, il modo come si era mutata l'ultima volta, mentre facevano l'amore nelle sabbie sopra la morta Città dei Poeti. O era diventata lo Shrike, o aveva permesso allo Shrike di prendere il suo posto. E così un atto d'amore era diventato un'oscenità.

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