— No! — urlò Sileno. Batté i pugni contro lame di bisturi e spire affilate. Tirò, si dimenò, si contorse, mentre la creatura lo stringeva a sé, lo tirava contro le proprie lame come se il poeta fosse una farfalla preparata per la conservazione, un esemplare infilzato. Non fu l'inimmaginabile sofferenza a spingere Martin Sileno alla follia: fu la sensazione di perdita irrecuperabile. L'aveva quasi terminato. L'aveva quasi terminato!
— No! — gridò Martin Sileno, dibattendosi con maggiore violenza finché l'aria non fu piena di una nebbiolina di sangue e di urla oscene. Lo Shrike lo portò verso l'albero in attesa.
Nella città morta, le urla echeggiarono ancora per un minuto, divennero sempre più deboli, più remote. Poi scese il silenzio, rotto solo dalle colombe che tornavano al nido, che scendevano con un debole fruscio d'ali nelle cupole e nelle torri in rovina.
Venne il vento e sbatacchiò pannelli di perspex schiodati e pezzi di mattone, spostò foglie secche in fontane asciutte, trovò varchi nei vetri rotti della cupola, sollevò pagine manoscritte in un lieve mulinello dal quale sfuggirono alcuni fogli che volarono nelle corti silenziose e nei passaggi deserti e negli acquedotti crollati.
Dopo un poco, il vento morì; e allora niente si mosse, nella Città dei Poeti.
22
Brawne Lamia scoprì che la camminata di quattro ore si era trasformata in un incubo di dieci ore. Prima c'era stata la deviazione verso la città morta e la difficile decisione di abbandonare lì Sileno. Brawne non voleva che il poeta restasse da solo; ma non voleva forzarlo a proseguire e neppure perdere tempo per tornare alle Tombe. In pratica, la deviazione lungo la cresta le era costata un'ora di cammino.
La traversata delle ultime dune e delle lande rocciose fu estenuante e noiosa. Quando Brawne giunse alle alture ai piedi delle montagne, ormai era pomeriggio inoltrato e il Castello era in ombra.
Quaranta ore prima era stato facile scendere i 661 gradini di pietra dal Castello. La salita fu una dura prova anche per muscoli cresciuti su Lusus. A mano a mano l'aria divenne più fredda e il panorama più spettacolare; quattrocento metri al di sopra delle colline pedemontane, Brawne non sudava più e riusciva di nuovo a scorgere la Valle delle Tombe. Da quell'angolatura vedeva solo la punta del Monolito di Cristallo, e anche quella come un irregolare scintillio e un lampo di luce. Si fermò una volta per assicurarsi che non fosse in realtà un messaggio luminoso, ma i bagliori erano casuali, semplici vetri che penzolavano dal Monolito in rovina e riflettevano la luce.
Prima di salire gli ultimi cento scalini, Lamia provò ancora il comlog. I canali di comunicazione erano pieni dei soliti rumori privi di significato, presumibilmente distorti dalle maree del tempo che disturbavano tutte le trasmissioni tranne quelle a brevissimo raggio. Un laser trasmettitore avrebbe funzionato, a giudicare dall'antiquato comlog del Console, ma loro non avevano altre apparecchiature laser, dopo la scomparsa di Kassad. Lamia scrollò le spalle e salì gli ultimi gradini.
Castel Crono era stato costruito dagli androidi di re Billy il Triste: non era un vero e proprio castello ma, nelle intenzioni, uno stabilimento, albergo turistico e rifugio estivo per gli artisti. Dopo l'evacuazione della Città dei Poeti, era rimasto abbandonato per più d'un secolo, visitato solo dagli avventurieri più spericolati.
Con il graduale declino della minaccia dello Shrike, turisti e pellegrini avevano ripreso a usare il Castello e alla fine la Chiesa dello Shrike l'aveva riaperto come fermata indispensabile nell'annuale Pellegrinaggio. Correva voce che alcune stanze, scavate nel cuore della montagna o poste in cima alle torrette meno accessibili, fossero la sede di rituali misteriosi e di elaborati sacrifici alla creatura che il fedeli dello Shrike chiamavano l'Avatar.
Con l'imminente apertura delle Tombe, la capricciosa irregolarità delle maree del tempo e l'evacuazione dei territori settentrionali, Castel Crono era tornato silenzioso. E così era, quando Brawne Lamia vi tornò.
Il deserto e la città morta erano ancora illuminati dal sole, ma il Castello era immerso nel crepuscolo, quando infine Lamia raggiunse la terrazza inferiore; si riposò un momento, prese dallo zaino più piccolo la torcia ed entrò nel labirinto. I corridoi erano bui. Durante la loro permanenza, due giorni prima, Kassad aveva fatto ricerche e aveva annunciato che tutte le fonti di energia erano morte per sempre: convertitori solari in frantumi, celle a fusione schiacciate e perfino le batterie di riserva rotte e disseminate per le cantine. Lamia vi aveva pensato decine di volte, mentre saliva i 661 gradini e lanciava occhiatacce alle navette dell'ascensore bloccate nelle guide verticali arrugginite.
Le sale più vaste, progettate per pranzi e per riunioni, erano come le avevano lasciate… disseminate di resti secchi di banchetti abbandonati e di segni di panico. Non c'erano cadaveri, ma striature marrone sulle pareti di pietra e sugli arazzi suggerivano un'orgia di violenza che risaliva a non molte settimane.
Lamia non badò al caos, non badò agli araldi — grandi uccelli neri con faccia oscenamente umana — che si alzarono in volo nella sala da pranzo centrale, non badò alla stanchezza e salì i numerosi piani fino al magazzino dove si erano accampati. Le scale divennero inspiegabilmente più strette e la livida luce che penetrava dai vetri colorati proiettò ombre malaticce. Dove i vetri erano rotti o mancavano del tutto, doccioni scrutavano all'interno, come impietriti nell'atto di entrare. Un vento freddo soffiava dalle vette innevate della Briglia e faceva rabbrividire Lamia, sotto le scottature solari.
Gli zaini e i bagagli extra erano ancora nel piccolo magazzino posto molto in alto sopra il salone centrale. Lamia si assicurò che le casse ammucchiate nella stanza contenessero provviste non deperibili e uscì sul piccolo balcone dove Lenar Hoyt aveva suonato la balalaica, solo alcune ore, un'eternità, prima.
L'ombra degli alti picchi s'allungava per chilometri sulla sabbia, quasi fino alla città morta. La Valle delle Tombe e le pietraie languivano ancora nella luce della sera, massi e basse formazioni rocciose lanciavano una confusione d'ombre. Da quel balconcino Lamia non scorgeva le Tombe, ma solo, di tanto in tanto, uno scintillio riflesso dal Monolito. Provò di nuovo il comlog, lo maledisse quando ottenne solo statiche e confusi rumori di fondo, tornò dentro per scegliere le provviste e caricarle.
Prese quattro confezioni base, avvolte in flussoschiuma e in fibroplastica prestampata. Nel Castello l'acqua non mancava (i canali per raccogliere la neve disciolta, molto in alto, erano una tecnologia impossibile da distruggere) perciò Brawne riempì tutte le bottiglie che aveva portato con sé e ne cercò altre. L'acqua era la prima necessità. Brawne maledisse Sileno perché non l'aveva accompagnata: il vecchio avrebbe potuto portare cinque o sei bottiglie piene.
Era pronta a partire, quando udì il rumore. C'era qualcosa, nella Grande Sala, fra lei e la scalinata. Lamia si mise in spalla l'ultimo zaino, estrasse dalla cintura la rivoltella paterna e scese lentamente i gradini.
La Sala era deserta; gli araldi non erano tornati. Pesanti arazzi, mossi dal vento, sventolavano come bandiere marce sopra la confusione di cibi e di posate. Contro la parete più lontana, una statua gigantesca librata a mezz'aria, tutta cromo e acciaio, raffigurante la faccia dello Shrike, ruotava sotto la brezza.
Lamia percorse lo spazio aperto, girandosi di scatto quasi ogni secondo, in modo da non dare mai a lungo la schiena a un angolo buio. All'improvviso un grido la immobilizzò.
Non era un grido umano. L'ululato passò negli ultrasuoni e oltre: Lamia rabbrividì e strinse con dita livide l'automatica. Di colpo il grido s'interruppe, come se avessero sollevato dal disco il braccio con la puntina.