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Gladstone lasciò perdere la musica piacevole che giungeva dal concerto sulla Passeggiata, lasciò perdere i voli di VEM pendolari che passavano in alto come uccelli migratori, lasciò perdere la gradevole aria e la morbida luce: materializzò il portale e ordinò che la teleportasse sulla luna della Terra. La luna per antonomasia.

Invece di attivare la traslazione, il comlog l'ammonì dei pericoli di recarsi laggiù. Gladstone annullò l'avvertimento.

Con un ronzio la microguardia si materializzò e la voce sottile nell'impianto suggerì che non era una buona idea che il Primo Funzionario Esecutivo andasse in un luogo così instabile. Gladstone zittì la microguardia.

Il portale stesso iniziò a discutere la scelta, finché Gladstone non usò la carta universale per programmarlo manualmente.

Finalmente comparve il vano nebuloso del teleporter e Gladstone lo varcò.

Sulla luna della Vecchia Terra l'unico posto ancora abitabile era il tratto di montagna e di mare riservato alla cerimonia Masada della FORCE: e Gladstone sbucò lì. Tribune e piazza d'armi erano deserte. Campi di contenimento classe-10 offuscavano le stelle e le lontane pareti del bordo, ma Gladstone vedeva dove il calore interno delle terribili maree gravitazionali aveva fuso le montagne e le aveva fatte scorrere in un nuovo mare di roccia.

Attraversò una piana di sabbia grigia, sentendo la ridotta gravità come un invito a volare. Immaginò di essere un pallone dei Templari, legato ma ansioso di prendere il volo. Resistette all'impulso di saltare, di procedere a balzi smisurati, ma tenne un passo leggero e la polvere volò in improbabili disegni alle sue spalle.

L'aria era rarefatta, sotto la cupola del campo di contenimento: Gladstone rabbrividì, nonostante le cellule termiche del mantello. Per un istante rimase al centro della piana amorfa e cercò di immaginare semplicemente la luna, il primo passo della razza umana nella lunga strada dalla culla. Ma le tribune della FORCE e le tettoie delle attrezzature la distrassero, resero futile una simile fantasia, e alla fine lei alzò la testa e guardò lo spettacolo per cui in realtà era venuta.

Le Vecchia Terra pendeva contro il nero del cielo. Non la Vecchia Terra, naturalmente, ma solo il pulsante disco d'accrescimento e la nube globulare di detriti che un tempo erano stati la Vecchia Terra. Erano molto luminosi, più luminosi di qualsiasi stella vista da Patawpha anche nelle rarissime notti serene, ma la luminosità era bizzarramente sinistra e inondava di luce malaticcia il campo di fango grigio.

Gladstone rimase a guardare. Non era mai stata lì, si era costretta a non andarci, ma adesso voleva disperatamente sentire qualcosa, udire qualcosa, come se dovesse giungerle una voce di ammonimento, o d'ispirazione, o forse di semplice commiserazione.

Non udì niente.

Rimase ancora qualche minuto, senza pensare a niente; solo quando cominciò a sentire freddo alle orecchie e al naso, decise di andarsene. Su TC2 sarebbe stata quasi l'alba.

Attivò il portale e diede un'ultima occhiata intorno; in quel momento, a una decina di metri da lei, si materializzò il vano di un altro teleporter. Gladstone esitò. Meno di cinque persone in tutta la Rete avevano accesso personale alla luna della Terra.

La microguardia ronzò e si pose tra lei e la figura che emergeva dal portale.

Leigh Hunt uscì, si guardò intorno, rabbrividì di freddo e avanzò rapidamente verso Gladstone. Nell'aria rarefatta aveva una voce acuta, quasi fanciullesca.

— Signora, deve tornare immediatamente. Gli Ouster sono riusciti a fare breccia, con un contrattacco a sorpresa.

Gladstone sospirò. Sapeva che sarebbe stato questo, il passo successivo. — Va bene — disse. — Hyperion è caduto? Possiamo evacuare le nostre forze?

Hunt scosse la testa. Aveva labbra quasi blu per il freddo. — Non mi sono spiegato — disse con voce soffocata. — Non si tratta solo di Hyperion. Gli Ouster attaccano in decine di punti diversi. Invadono la Rete stessa!

Meina Gladstone, a un tratto intontita e gelata fin nell'intimo, più per lo choc che per il freddo, si strinse nel mantello e varcò il portale per rientrare in un mondo che non sarebbe stato più lo stesso.

19

Si raccolsero all'imboccatura della Valle delle Tombe, Brawne Lamia e Martin Sileno carichi di zaini e di sacche, Sol Weintraub, il Console e padre Duré fermi e muti come un tribunale di patriarchi. Le prime ombre del pomeriggio si allungavano verso est nella valle e si protendevano come dita di tenebra verso le Tombe rilucenti.

— Non sono ancora convinto che sia una buona idea, dividerci a questo modo — disse il Console, strofinandosi il mento. Faceva molto caldo. Il sudore gli si raccoglieva sulle guance irsute e gli colava lungo il collo.

Lamia alzò le spalle. — Sapevamo che ciascuno di noi si sarebbe confrontato da solo con lo Shrike. Che importa se per qualche ora restiamo separati? Venite anche voi tre, se volete.

Il Console e Sol lanciarono un'occhiata a padre Duré. Il prete era chiaramente esausto. La ricerca di Kassad l'aveva prosciugato delle scarse energie rimastegli dopo la prova tremenda.

— Qualcuno dovrebbe aspettare qui, nel caso che il colonnello tornasse — disse Sol. Fra le sue braccia, la bimba pareva piccolissima.

Lamia si aggiustò a tracolla le cinghie degli zaini. — D'accordo. Impiegheremo un paio d'ore per arrivare al Castello, un po' di più per tornare e almeno un'ora per raccogliere provviste. Saremo di nuovo qui prima del buio. Più o meno all'ora di cena.

Il Console e Duré scambiarono con Sileno una stretta di mano. Sol circondò col braccio le spalle di Brawne. — Tornate tutti interi — mormorò.

La donna toccò la guancia ispida del vecchio, per un istante posò la mano sulla testa della piccina, si girò e si avviò a passo rapido su per la valle.

— Ehi, merda, aspetta che ti raggiungo! — le gridò dietro Martin Sileno, mettendosi a correre, con rumore di borracce e bottiglie.

Insieme raggiunsero e superarono la sella fra le pareti scoscese. Sileno si lanciò alle spalle un'occhiata, vide gli altri già rimpiccioliti dalla distanza, bastoncini di colore fra i massi e le dune nei pressi della Sfinge. — Non va affatto secondo i piani, eh? — disse.

— Non so — rispose Lamia. Si era messa in calzoncini corti e i muscoli delle gambe tozze e robuste luccicavano sotto un velo di sudore. — Quali erano, i piani?

— Il mio, terminare il massimo poema dell'universo e poi tornare a casa — disse Sileno. Bevve un sorso dall'ultima bottiglia contenente acqua. — Maledizione, almeno avessimo portato vino sufficiente a durare più di noi!

— Non avevo alcun piano — disse Lamia, quasi tra sé. I corti ricci, umidi di sudore, erano incollati alla nuca massiccia.

Martin Sileno sbuffò, ridendo. — Non saresti qui, se non fosse stato per quel tuo amante cyborg…

— Cliente — lo corresse lei, brusca.

— Come vuoi. Era lui, la personalità ricuperata di John Keats, a ritenere importante la venuta su Hyperion. Così ora l'hai portato fin qui… hai ancora l'iterazione Schrön, vero?

Con aria assente Lamia si toccò il minuscolo shunt neurale dietro l'orecchio sinistro. Una sottile membrana di polimero osmotico proteggeva da sabbia e polvere le prese di collegamento piccole come follicoli. — Sì.

Sileno rise di nuovo. — A che cazzo ti serve, bambina, se non esiste una sfera dati con cui interagire? Tanto valeva lasciare la personalità di Keats su Lusus o in qualsiasi altro posto. — S'interruppe un attimo per aggiustarsi cinghie e zaini. — Di' un po', puoi accedere per conto tuo alla personalità?

Lamia ripensò ai sogni della notte precedente. In essi c'era stata una presenza che pareva Johnny… ma le immagini erano della Rete. Si trattava forse di ricordi? — No — rispose. — Da sola non ho accesso all'iterazione Schrön. Contiene più dati di quanti non possa trattarne un centinaio di impianti semplici. E ora perché non chiudi il becco e cammini? — Allungò il passo e piantò il poeta lì dov'era.

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