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"Questa mano viva" era uno di quei ritmi poetici con echi simili a un accordo non risolto nella mente, che ti spingono a vederlo in inchiostro, su carta. Ed esso, a sua volta, era l'eco di un verso precedente, mal riuscito (il diciottesimo, credo), del mio secondo tentativo di raccontare la storia della caduta del dio del sole Iperone. Ricordo che la prima stesura… quella senza dubbio ancora stampata dovunque le mie ossa letterarie siano esposte come i resti mummificati di un santo disattento, sepolto in cemento e vetro sotto l'altare della letteratura… diceva:

…Chi, vivo, può dire:
"Tu non sei Poeta… non puoi narrare i tuoi sogni"?
Poiché ogni uomo la cui anima non sia materia bruta
ha visioni, e parlerebbe, se avesse amato,
e se fosse ben educato nella lingua madre.
Se il sogno ora inteso a esser narrato
sia di Poeta o di Fanatico, si saprà
quando la mia mano d'autore sarà nella tomba.

Mi piacque la versione scarabocchiata, con quel senso dell'ossessionare e d'essere ossessionati, e l'avrei sostituita a "Quando la mia mano d'autore…", anche a costo di un briciolo di revisione e dell'aggiunta di quattordici versi al già troppo lungo brano d'apertura del primo Canto…

Barcollai all'indietro verso la poltrona e mi sedetti, chinando il viso fra le mani. Piangevo. Senza sapere perché. Non riuscivo a smettere.

Per un bel pezzo, dopo che le lacrime smisero di scorrere, restai lì seduto a pensare, a ricordare. Una volta, forse dopo parecchie ore, udii il rumore di passi che giungevano da lontano, esitavano rispettosamente davanti alla saletta, svanivano di nuovo in lontananza.

Mi resi conto che tutti i libri, in tutte le rientranze, erano opera del "Signor John Keats, un metro e cinquanta", come avevo scritto io stesso una volta… John Keats, il poeta tisico che aveva chiesto solo che la propria tomba rimanesse senza nome e recasse solo la scritta:

QUI GIACE UNO
IL CUI NOME FU SCRITTO SULL'ACQUA

Non sopportai di guardare i libri, di leggerli. Non dovevo farlo.

Da solo, nel silenzio e nel profumo di cuoio e di carta invecchiata della biblioteca, da solo nel santuario di me stesso e del mio opposto, chiusi gli occhi. Non dormii. Sognai.

33

L'analogo piano dati di Brawne Lamia e la personalità ricuperata del suo amante colpiscono la superficie della megasfera come due tuffatori quella di un mare turbolento. Provano uno choc quasi elettrico, l'impressione di avere varcato una membrana resistente, e sono all'interno; le stelle sono sparite, Brawne spalanca gli occhi e fissa un ambiente informatico infinitamente più complesso di qualsiasi sfera dati.

Le sfere dati percorse da operatori umani sono spesso paragonate a complesse città di informazioni: torri di dati aziendali e governativi, autostrade di flusso di processo, larghi viali di interazione di piano dati, sottopassi di percorso riservato, alte muraglie di ghiaccio di sicurezza con microfagi di guardia che s'aggirano in cerca di preda, e l'analogo visibile di ogni flusso e riflusso di microonda in base al quale vive una città.

La megasfera è di più. Molto di più.

Ci sono i soliti analoghi della città sfera dati, ma piccoli, così minuscoli, quasi rimpiccioliti dalla portata della megasfera, come lo sarebbero vere città di un mondo visto dall'orbita.

La megasfera, scopre Brawne, è viva e interagisce come la biosfera di qualsiasi mondo di classe-5: foreste d'alberi di dati color verde grigio crescono e prosperano, propagano nuove radici e rami e germogli perfino mentre lei guarda; intere microecologie di flusso dati e di IA di subroutine sbocciano, fioriscono e muoiono quando la loro utilità termina; sotto il mutevole terriccio fluido come oceano della matrice vera e propria, lavora un'affaccendata vita sotterranea di talpe dati, di vermi di collegamento trasmissioni, di batteri riprogrammatori, di radici d'albero di dati, di semi d'Iterazioni Bizzarre, mentre sopra, dentro, attraverso, sotto l'intricata foresta di fatti e interazioni, analoghi di predatori e di prede portano a termine i propri compiti misteriosi, planano e corrono, s'arrampicano e si urtano, alcuni veleggiano liberi nei grandi spazi fra sinapsi ramificate e foglie neuroniche.

Con la stessa velocità con cui la metafora dà significato alla scena che Brawne vede, le immagini svaniscono e si lasciano dietro solo l'opprimente realtà analoga della megasfera: un vasto oceano interno di luce e di suono e di connessioni ramificate, intersecato di mulinelli di consapevolezza IA e di sinistri buchi neri di collegamenti teleporter. Brawne si sente sprofondare nella vertigine e si afferra con forza alla mano di Johnny, come una donna sul punto d'annegare si aggrapperebbe a un salvagente.

"Tutto a posto" le invia Johnny. "Non ti mollo. Reggiti a me."

"Dove andiamo?"

"A trovare una cosa che ho dimenticato."

"Mio… padre…"

Brawne si regge forte, mentre lei e Johnny sembrano scivolare più profondamente negli abissi amorfi. Imboccano un viale scarlatto e scorrevole di porta-dati sigillati; Brawne immagina che sia ciò che un globulo rosso vede nel viaggio lungo un vaso sanguigno affollato.

Pare che Johnny conosca il percorso; due volte lasciano la strada principale per seguire una diramazione meno ampia e molte altre Johnny deve scegliere fra viali che si biforcano. Lo fa con facilità, muove gli analoghi del loro corpo fra porta-piattini delle dimensioni di una piccola astronave. Brawne cerca di ritrovare la metafora della biosfera, ma lì, dentro le diramazioni a molte vie, vede gli alberi e non la foresta.

Vengono spinti attraverso un'area dove le IA comunicano sopra di loro… intorno a loro… come grandi eminenze grigie stagliate su di un formicaio affaccendato. Brawne ricorda il mondo natale della madre, Freeholm, la levigatezza da tavolo di biliardo della Grande Steppa, dove la tenuta di famiglia era l'unica in dieci milioni di acri di corta erba… ricorda le terribili tempeste autunnali di quel mondo, quando si fermava al limitare della tenuta, appena al di qua della bolla di protezione del campo di contenimento, e guardava stratocumuli scuri ammassarsi con una carica elettrica che le faceva rizzare i peli delle braccia in attesa del fulmini grandi come città, trombe d'aria che mulinavano e cadevano come i riccioli di Medusa da cui prendevano il nome, e dietro i tornado, nere muraglie di vento che cancellavano ogni cosa al loro passaggio.

Le IA sono peggio. Nella loro ombra, Brawne si sente meno che insignificante: essere insignificanti vorrebbe dire invisibilità; lei si sente anche fin troppo visibile, fin troppo parte delle terribili percezioni di quei giganti informi…

Johnny le stringe la mano e sono al di là, girano a sinistra e in basso lungo una diramazione più trafficata, poi cambiano direzione, la cambiano di nuovo, sembrano due fotoni fin troppo consapevoli, smarriti in un intrico di cavi a fibre ottiche.

Ma Johnny non si è smarrito. Le stringe la mano, compie un'ultima svolta in una profonda caverna azzurra priva di traffico e tira Brawne accanto a sé, mentre aumentano la velocità; giunzioni sinaptiche sfrecciano via e diventano indistinte; solo la mancanza di risucchio d'aria distrugge l'illusione di viaggiare a velocità supersonica su una folle autostrada.

All'improvviso c'è un rumore simile a quello di cascate convergenti, di treni a levitazione che perdono quota e strìdono lungo i binari, a velocità scandalosa. Brawne pensa di nuovo ai tornado di Freeholm, al ruggito dei riccioli di Medusa che si fanno strada verso di lei nel panorama piatto, strappando tutto; poi lei e Johnny si trovano in un gorgo di luce e di suoni e di sensazioni, due insetti che si agitano verso l'oblio del nero vortice più in basso.

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