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Un lieve brivido mi percorse, nel ricordare il nome della capitale; Hyperion era stato ripopolato da re Billy il Triste con una colonia di poeti, di artisti e di altri sbandati in fuga perché Horace Glennon-Height minacciava d'invadere il loro mondo natale… minaccia mai portata a termine. Quasi due secoli prima, il poeta che partecipava all'attuale Pellegrinaggio allo Shrike, Martin Sileno, aveva consigliato re Billy nella scelta del nome della capitale. Keats. I locali chiamavano Jacktown la parte vecchia della città.

— Un posto incredibile — disse il sottotenente. — La vera estremità anale del nulla. Voglio dire, niente sfera dati, niente VEM, niente teleporter, niente bar stim-sim, niente di niente. Non c'è da stupirsi se migliaia di stronzi indigeni se ne stanno accampati intorno allo spazioporto e fanno a pezzi il reticolato per andarsene dal pianeta.

— Assalgono davvero lo spazioporto? — domandò Hunt.

— No — rispose il sottotenente, con uno schiocco di gomma da masticare. — Ma sono pronti a farlo, rendo l'idea? Ecco perché il secondo battaglione dei marines ha innalzato una barriera e controlla le vie di comunicazione con la città. Inoltre, quei bifolchi sono convinti che da un momento all'altro metteremo in funzione i teleporter e che li faremo uscire dalla merda in cui si sono cacciati da soli.

— Si sono cacciati da soli? - dissi.

Il sottotenente scrollò le spalle. — Avranno combinato qualcosa, per provocare gli Ouster, no? Siamo qui per togliergli le ostriche dal fuoco.

— Le castagne — lo corresse Leigh Hunt, non raccogliendo il gioco di parole.

Altro schiocco di gomma da masticare. — Fa lo stesso.

Il mormorio del vento divenne un urlio chiaramente percettibile attraverso lo scalo. La navetta rimbalzò due volte, poi scivolò dolcemente — una dolcezza di malaugurio — come se avesse incontrato uno scivolo di ghiaccio quindici chilometri sopra il suolo.

— Vorrei che ci fosse un oblò — mormorò Leigh Hunt.

Nella navetta faceva caldo e si soffocava. I rimbalzi davano una bizzarra sensazione di rilassamento, come quella di una piccola nave a vela che risalisse e scendesse onde basse. Per alcuni minuti tenni chiusi gli occhi.

10

Sol, Brawne, Martin Sileno e il Console portano i bagagli, il cubo di Moebius di Het Masteen e il corpo di Lenar Hoyt giù per la lunga rampa fino all'ingresso della Sfinge. Ora cade la neve, turbina sulla superficie già butterata delle dune, in una complicata danza di particelle spinte dal vento. Anche se i comlog dicono che la notte è quasi terminata, a oriente non c'è traccia d'alba. Le frequenti chiamate sul collegamento radio comlog non ottengono risposta dal colonnello Kassad. Sol Weintraub esita davanti all'ingresso della Tomba del Tempo detta Sfinge. Sente la presenza della figlia come calore contro il petto sotto il mantello, alito caldo contro la gola. Alza la mano, tocca il piccolo fardello e cerca d'immaginarsi Rachel come una donna di ventisei anni, la ricercatrice che si sofferma su quello stesso ingresso prima di entrare a studiare i misteri anti-entropici della Tomba. Scuote la testa. Da quel momento sono trascorsi ventisei lunghi anni, tutta una vita. Fra quattro giorni sarà il giorno di nascita della figlia. A meno che Sol non agisca, non trovi lo Shrike, non trovi con lui un accordo, non faccia qualcosa, Rachel morirà, fra quattro giorni.

— Vieni, Sol? — lo chiama Brawne Lamia. Gli altri hanno deposto i bagagli nella prima stanza, sei metri più avanti nel corridoio di pietra.

— Eccomi — risponde Sol, ed entra nella tomba. Fotoglobi e lampadine elettriche sono appesi lungo il tunnel, ma sono spenti e impolverati. Solo la torcia di Sol e il bagliore di una delle piccole lanterne di Kassad illuminano la strada.

La prima stanza è piccola, non più di quattro metri per sei. Gli altri tre pellegrini hanno ammucchiato i bagagli contro la parete di fondo e hanno steso teloni e sacchi a pelo nel centro del pavimento gelido. Due lanterne sibilano e mandano una luce fredda. Sol si ferma e si guarda intorno.

— Il corpo di padre Hoyt è nella stanza accanto — dice Brawne Lamia, rispondendo alla domanda inespressa. — Lì fa anche più freddo.

Sol prende posto vicino agli altri. Anche a quella profondità, ode il raspare della sabbia e della neve spinte dal vento contro la pietra.

— Più tardi il Console proverà di nuovo il comlog — dice Brawne. — Spiegherà a Gladstone la situazione.

Martin Sileno ride. — Non serve a niente. A un cazzo di niente. Quella sa bene cosa fa. Non ci lascerà mai andare via di qui.

— Farò una prova appena dopo l'alba — dice il Console. Ha la voce stanchissima.

— Starò io di guardia — dice Sol. Rachel si agita e piange debolmente. — Tanto, devo dare da mangiare alla bambina.

Gli altri sembrano troppo stanchi per rispondere. Brawne si appoggia a uno zaino, chiude gli occhi, nel giro di qualche secondo respira pesantemente. Il Console si cala sugli occhi il tricorno. Martin Sileno incrocia le braccia e fissa l'entrata, in attesa.

Sol Weintraub si affaccenda con un nutripac: con le dita gelate e artritiche ha difficoltà a tirare la linguetta per l'autoriscaldamento. Guarda nella sacca e si accorge di essere rimasto solo con dieci confezioni e una manciata di pannolini.

La piccina poppa e Sol ciondola la testa, quasi assopito, quando un rumore sveglia tutti.

— Cos'è? — grida Brawne, cercando a tastoni la rivoltella paterna.

— Sst! — la zittisce il poeta, alzando la mano per avere silenzio.

Da qualche parte, al di là della Tomba, il rumore si ripete. Secco e definitivo, taglia il frastuono del vento e il fruscio della sabbia.

— Il fucile di Kassad — dice Brawne Lamia.

— O di un altro — mormora Martin Sileno.

Rimangono in silenzio e tendono le orecchie. Per un lungo istante non c'è alcun rumore. Poi, in un attimo, la notte è piena di frastuono… frastuono che li spinge a rannicchiarsi e a tapparsi le orecchie. Rachel strilla di terrore, ma i suoi strilli non si sentono fra le laceranti esplosioni che provengono dall'esterno.

11

Mi svegliai proprio mentre la navetta atterrava. "Hyperion" mi dissi, cercando ancora di separare i pensieri dai brandelli del sogno.

Il giovane sottotenente ci augurò buona fortuna e uscì per primo, quando il portello a iride si dilatò e aria fredda e sottile sostituì quella più densa della cabina pressurizzata. Seguii Hunt all'esterno e lungo la rampa d'ormeggio standard, varcai il muro di schermatura e fui sul tarmac.

Era notte; non avevo idea di quale fosse l'ora locale, se il terminatore aveva appena oltrepassato quel punto del pianeta o si avvicinava, ma provai l'impressione che fosse tardi. Pioveva piano, un'acquerugiola profumata di mare e di vegetazione bagnata di fresco. Luci di campo brillavano lungo il perimetro lontano e una ventina di torri illuminate lanciava aloni contro le nuvole basse. Sei giovanotti in divisa campale dei marines scaricavano rapidamente la navetta e il nostro sottotenente parlava in tono vivace a un ufficiale, trenta metri alla nostra destra. Il piccolo spazioporto pareva uscito da un libro di storia, un porto coloniale che risalisse ai primi giorni dell'Egira. Primitivi pozzi di lancio e quadrati d'atterraggio si estendevano per un paio di chilometri verso la massa scura delle montagne a nord; incastellature e torri di servizio badavano a una ventina di navette militari e a piccoli mezzi da guerra intorno a noi; le zone d'atterraggio erano circondate da edifici modulari che mostravano schieramenti di antenne, campi di contenimento violacei e un grappolo di skimmer e di velivoli.

Seguendo lo sguardo di Hunt, notai uno skimmer che si muoveva verso di noi. Il simbolo geodetico azzurro e oro dell'Egemonia, sopra una flangia, era illuminato dalle luci di posizione; la pioggia rigava le torrette di prua ed era spazzata via dai ventilatori in una violenta cortina di nebbia. Lo skimmer si posò, una torretta di perspex si aprì e si ripiegò, un uomo uscì e si mosse in fretta sul tarmac verso di noi.

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