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Sol sognò il sogno che lo tormentava dal giorno in cui Rachel aveva contratto il morbo di Merlino. Camminava in un vasto edificio dove colonne grandi come sequoie si inalzavano nella penombra e una luce color carminio cadeva in solidi raggi da un imprecisato punto in alto. Ci fu il rumore di una gigantesca esplosione, di interi mondi in fiamme. Di fronte a lui si accesero due ovali del rosso più intenso.

Sol riconobbe il luogo. Sapeva che più avanti avrebbe trovato un altare su cui era distesa Rachel, Rachel adulta, priva di sensi. Poi sarebbe giunta la Voce, a ordinare.

Sol si fermò sulla balconata e fissò in basso la scena ben nota. Sua figlia, la donna che lui e Sarai avevano salutato alla partenza della missione di ricerca sul remoto Hyperion, giaceva nuda sopra un largo blocco di pietra. In alto fluttuavano due ovali di un rosso intensissimo, gli occhi dello Shrike. Sull'altare c'era un lungo coltello ricurvo, d'osso affilato. Allora giunse la Voce:

"Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata; vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto, in uno dei luoghi che ti dirò."

Sol si sentì tremare le braccia, per la furia e per il dolore. Si strappò i capelli e gridò nel buio, ripetendo le parole che aveva già detto a quella voce:

"Non ci saranno più offerte, né di figli né di genitori. Non ci saranno più sacrifici. Il tempo dell'ubbidienza e della redenzione è finito. O ci aiuti da amico, oppure vattene via."

Nei sogni precedenti, seguiva il rumore del vento, un senso di solitudine, orribili passi che s'allontanavano nel buio. Ma questa volta il sogno continuò, l'altare scintillò e a un tratto fu vuoto, a parte il coltello d'osso. In alto, gli ovali rossi fluttuavano ancora, rubini di fuoco grossi come pianeti.

"Sol, ascolta" riprese la Voce, ora modulata in modo da non echeggiare dall'alto, ma che quasi gli bisbigliava all'orecchio. "Il futuro dell'umanità dipende dalla tua scelta. Non puoi offrire Rachel per amore, se non per ubbidienza?"

Sol udì nella mente la risposta nello stesso momento in cui brancolava cercando le parole. Non ci sarebbero state altre offerte. Non oggi. Né mai. L'umanità aveva patito abbastanza, per amore di dèi, per la lunga ricerca di Dio. Sol pensò ai molti secoli in cui il suo popolo, gli ebrei, avevano patteggiato con Dio, lamentandosi, litigando, denunciando l'ingiustizia delle cose, ma sempre — sempre — tornando all'ubbidienza a ogni costo. Generazioni morenti nei forni dell'odio. Future generazioni segnate dai fuochi freddi delle radiazioni e dell'odio rinnovato.

Non stavolta. Mai più.

— Rispondi di sì, papà.

Sol sobbalzò al tocco di una mano. Sua figlia, Rachel, gli era accanto, né neonata né adulta, ma la bambina di otto anni che aveva conosciuto due volte, mentre cresceva e mentre ringiovaniva per il morbo di Merlino: Rachel con i capelli castano chiaro legati sulla nuca in una semplice treccina, figuretta piccola nella tuta da gioco di denim scolorito e scarpe da ginnastica.

Sol le prese la mano, la strinse più forte che poteva ma senza farle male, sentì la stretta di risposta. Non era illusione, non era l'ultima crudeltà dello Shrike. Quella era proprio sua figlia.

— Rispondi di sì, papà.

Sol aveva risolto il dilemma di Abramo sull'ubbidienza a un Dio diventato maligno. L'ubbidienza non poteva più essere d'importanza capitale nella relazione fra l'umanità e il suo Dio. Ma se il figlio scelto come vittima sacrificale chiedeva l'ubbidienza al capriccio di quel Dio?

Sol piegò il ginocchio accanto alla figlia e aprì le braccia. — Rachel.

Rachel si strinse contro di lui, con l'energia che Sol ricordava in innumerevoli abbracci d'amore intenso. Gli mormorò all'orecchio: — Per favore, papà, dobbiamo rispondere di sì.

Sol continuò a tenerla stretta, sentendo intorno a sé le braccine e contro la guancia il tepore della sua. Pianse in silenzio, sentì l'umido sulle guance e nella barba, ma non voleva lasciare la figlia nemmeno per il secondo necessario ad asciugarsi le lacrime.

— Ti voglio bene, papà — mormorò Rachel.

Allora Sol si alzò, si passò sul viso il dorso della mano, si asciugò le lacrime; strinse con forza la sinistra di Rachel e iniziò con lei la lunga discesa verso l'altare.

Sol si svegliò con l'impressione di cadere e cercò di afferrare la piccina. Rachel gli dormiva sul petto, con i piccoli pugni chiusi, il pollice in bocca; ma quando Sol si drizzò, lei si svegliò e inarcò istintivamente la schiena, con lo strillo e la reazione del neonato sorpreso. Sol si tirò in piedi, lasciò cadere intorno a sé coperte e mantello, si strinse forte Rachel al petto.

Era giorno. Tardo mattino, sembrava. Avevano dormito, mentre la notte moriva e la luce del sole strisciava nella valle e sulle Tombe. La Sfinge se ne stava acquattata sopra di loro, simile a un animale da preda, con le zampe possenti distese ai lati della scalinata.

Rachel si mise a piangere, con il visetto congestionato per la sorpresa del risveglio, la fame, la sensazione di paura che percepiva nel padre. Sol la cullò, in piedi sotto il sole cocente. Salì sull'ultimo gradino della Sfinge, cambiò alla figlia il pannolino, scaldò uno degli ultimi nutripac e le diede il biberon finché il pianto non si mutò in poppata, poi le fece fare il ruttino e passeggiò cullandola, finché Rachel non tornò a scivolare nel sonno.

Mancavano meno di dieci ore alla "nascita". Meno di dieci ore al tramonto e agli ultimi minuti di vita di Rachel. Sol desiderò, non per la prima volta, che la Tomba del Tempo fosse un enorme edificio di cristallo simboleggiante il cosmo e la divinità che lo governava: allora l'avrebbe preso a sassate fino a non lasciare intatto nemmeno un vetro.

Provò a ricordare i particolari del sogno, ma il tepore e il senso di rassicurazione che ne aveva tratto andarono a brandelli sotto la luce cruda del sole di Hyperion. Ricordò solo la supplica che Rachel gli aveva mormorato. Al pensiero di offrire sua figlia allo Shrike, si sentì contorcere d'orrore le viscere. — Va tutto bene — bisbigliò a Rachel, mentre lei si agitava e con un sospiro tornava nell'infido riiugio del sonno. — Va tutto bene, piccolina. La nave del Console arriverà presto. Sarà qui da un momento all'altro.

La nave del Console non arrivò a mezzogiorno. La nave del Console non arrivò nel pomeriggio. Sol camminò su e giù per la valle, chiamando coloro che erano scomparsi; cantò canzoni quasi dimenticate, quando Rachel si svegliò; la cullò con ninnenanne, quanto tornò a scivolare nel sonno. La bambina era davvero piccola e leggera: sei libbre e tre once, diciannove pollici alla nascita, ricordò Sol, sorridendo alle antiquate unità di misura della sua vecchia casa, il Mondo di Barnard.

Nel tardo pomeriggio si svegliò di soprassalto dal dormiveglia all'ombra della zampa protesa della Sfinge, e si alzò con Rachel in braccio, anche lei sveglia, mentre una nave spaziale descriveva un arco nella cupola del cielo blu lapislazzuli.

— È arrivata! — gridò; e Rachel si agitò quasi in risposta.

Una scia azzurra di fiamma di fusione brillò con l'intensità tipica delle navi spaziali nell'atmosfera. Sol saltellò su e giù, pieno di sollievo per la prima volta in molti giorni. Gridò e saltò finché Rachei pianse e strillò, preoccupata. Sol si fermò, sollevò in alto la figlia, pur sapendo che lei ancora non poteva mettere a fuoco la vista ma desiderando che vedesse la bellezza della nave che scendeva, che tracciava un arco sopra la lontana catena di montagne, che cadeva verso il deserto.

— C'è riuscito! — gridò Sol. — Arriva! La nave…

Tre colpi sordi colpirono la valle quasi nello stesso istante; i primi due erano i rimbombi sonici dell'"orma" della nave spaziale che decelerava. Il terzo era il rombo della sua distruzione.

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