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Lee era la spia e il contatto di Gladstone. Il nuovo grado e gli ordini gli consentivano di essere informato delle decisioni di comando, ma quattro ammiragli della FORCE:spazio lo superavano in grado.

Tutto regolare: Gladstone lo voleva sulla scena, per essere tenuta al corrente.

La vasca si annebbiò e vi comparve il viso deciso di William Ajunta Lee. — Signora, rapporto secondo gli ordini. L'Unità Operativa 181.2 si è teleportata con successo nel Sistema 3996.12.22…

Gladstone batté le palpebre per la sorpresa, prima di ricordare che quello era il codice ufficiale per il sistema con stella di tipo G nel quale era compreso Mare Infinitum. Di rado si pensava all'astrografia al di fuori del mondo stesso della Rete.

— …le navi di assalto dello Sciame rimangono a centoventi minuti dal raggio letale del mondo bersaglio — diceva intanto Lee. Gladstone sapeva che il raggio letale era grosso modo pari a 0,13 UA, distanza alla quale l'armamento standard delle navi aveva efficacia nonostante le difese a terra. Mare Infinitum non aveva difese a terra. Il neo ammiraglio continuò: — Contatto con elementi dell'avanguardia stimato per le 17:32:26 standard Rete, fra circa venticinque minuti. L'Unità Operativa è configurata per la massima penetrazione. Due Balzonavi permetteranno l'arrivo di nuovo personale o di armi finché i teleporter non saranno sigillati durante il combattimento. L'incrociatore su cui sono a bordo, l'AE Garden Odyssey, eseguirà alla prima occasione i suoi ordini speciali. William Lee. Fine.

L'immagine decadde in una sfera rotante di bianco, mentre i codici di trasmissione terminavano il loro brulichio.

— Risposta? — domandò il computer del trasmettitore.

— Messaggio ricevuto — disse Gladstone. — Procedere.

Gladstone rientrò nello studio e trovò Sedeptra Akasi in attesa, con una ruga di preoccupazione sul viso attraente.

— Cosa c'è?

— Il consiglio di guerra è pronto a riunirsi — disse l'aiutante. — Il senatore Kolchev aspetta di vederla per una questione che lui dice urgente.

— Fallo entrare. Informa il consiglio che arriverò fra cinque minuti.

Gladstone si sedette all'antica scrivania e resistette all'impulso di chiudere gli occhi. Era stanchissima. Ma aveva gli occhi aperti, quando Kolchev entrò. — Siedi, Gabriel Fyodor.

Il massiccio lusiano andò avanti e indietro. — Al diavolo le sedie! Sai cosa accade in questo momento, Meina?

Gladstone sorrise appena. — Ti riferisci alla guerra? La fine della vita come la conosciamo? Questo?

Kolchev batté sul palmo il pugno. — No, non mi riferisco a questo, maledizione! Mi riferisco al fallout politico. Hai tenuto d'occhio la Totalità?

— Quando mi è stato possibile.

— Allora sai che certi senatori e certi personaggi all'esterno del senato cercano sostegni per la tua disfatta in un voto di fiducia. È inevitabile, Meina. Semplice questione di tempo.

— Lo so, Gabriel. Perché non ti siedi? Abbiamo un paio di minuti, prima di tornare nella Sala di Guerra.

Kolchev quasi crollò in una poltrona. — Voglio dire, maledizione, perfino mia moglie si dà da fare per raccogliere voti contro di te, Meina.

Gladstone allargò il sorriso. — Sudette non è mai stata uno dei miei sostenitori più accesi, Gabriel. — Il sorriso scomparve. — Non ho assistito ai dibattiti, negli ultimi venti minuti. Quanto tempo pensi che mi resti?

— Otto ore, forse meno.

Gladstone annuì. — Mi basta.

— Ti basta? Che diavolo significa, ti basta? Chi altri sarà in grado di servire come Esecutivo di Guerra?

— Tu — disse Gladstone. — Non c'è dubbio che sarai tu a succedermi.

Kolchev brontolò qualcosa.

— Forse la guerra non durerà tanto — disse Gladstone, quasi fra sé.

— Eh? Ah, ti riferisci alla superarma del Nucleo. Già, Albedo ha fatto costruire un modello funzionante, in una imprecisata base della FORCE, e vuole che il consiglio assista a una prova. Una maledetta perdita di tempo, secondo me.

Gladstone sentì qualcosa di simile a una mano gelida stringerle il cuore. — La neurobomba? Il Nucleo ne ha già una?

— Ne ha pronte diverse. Una è già a bordo di una nave torcia.

— Chi l'ha autorizzato, Gabriel?

— Morpurgo ha autorizzato la preparazione. — Il senatore si sporse in avanti. — Perché, Meina, cosa non va? Quell'affare non può essere usato senza il permesso del PFE.

Gladstone guardò il vecchio collega del senato. — Siamo molto distanti dalla Pax Egemonica, vero, Gabriel?

Il lusiano borbottò di nuovo, ma nei lineamenti tozzi traspariva dolore. — Tutta colpa nostra, diavolo. L'amministrazione precedente ha dato retta al Nucleo e ha lasciato che Bressia attirasse uno Sciame. Sistemato questo, tu hai prestato orecchio ad altri elementi del Nucleo e hai portato Hyperion nella Rete.

— Credi che l'aver mandato la flotta a difendere Hyperion abbia provocato una guerra più ampia?

Kolchev alzò gli occhi. — No, no, impossibile. Quelle navi Ouster sono per strada da più di un secolo, no? Se solo le avessimo scoperte prima! O se trovassimo un modo di negoziare per toglierci dalla merda.

Il comlog di Gladstone trillò. — È ora di tornare in consiglio — disse piano il PFE. — Probabilmente il consulente Albedo vuole mostrarci l'arma che vincerà la guerra.

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È più facile permettere a me stesso di andare alla deriva nella sfera dati che non stare disteso sul letto nella notte che sembra non finire mai, ascoltare la fontana e aspettare la prossima emorragia. Questa debolezza è peggio che debilitante: mi trasforma in un uomo vuoto, tutto guscio e niente sostanza. Ricordo quando Fanny si prendeva cura di me, durante la convalescenza a Wentworth Place, e il tono della sua voce e le riflessioni filosofiche che soleva proclamare: "C'è un'altra vita? Mi risveglierò e scoprirò che questa è un sogno? Dev'esserci: non siamo stati creati per questo genere di sofferenze".

Oh, Fanny, se solo tu sapessi! Siamo stati creati esattamente per questo genere di sofferenze. Alla fin fine, è tutto ciò che siamo, limpide pozze di autocoscienza fra scroscianti ondate di dolore. Siamo destinati e progettati per portare con noi il dolore, stringendolo al ventre come il giovane ladro spartano che nascondeva un cucciolo di lupo, in modo che possa sbranarci le viscere. Quale altra creatura nell'ampio dominio di Dio porterebbe il ricordo di te, Fanny, polvere da novecento anni, e se ne lascerebbe divorare, anche se la consunzione fa lo stesso lavoro con spontanea efficienza?

Le parole mi assalgono. Il pensiero di libri mi fa star male. La poesia mi risuona nella mente; se avessi il potere di scacciarla, lo farei all'istante.

Martin Sileno: ti odo, sulla tua vivente croce di spine. Reciti poesie come un mantra e intanto ti domandi quale dio dantesco ti abbia condannato a un posto simile. Una volta dicesti… ero lì, con la mente, quando raccontavi agli altri la tua storia!… dicesti:

"Essere un poeta, mi resi conto, un poeta vero, significava diventare l'Avatar incarnato dell'umanità; accettare il manto di poeta equivaleva a portare la croce del Figlio dell'Uomo, a sopportare le doglie del parto dell'Anima Madre dell'Umanità.

"Essere un poeta vero è diventare Dio".

Bene, Martin, vecchio collega, vecchio amico, tu porti la croce e sopporti le doglie, ma sei forse più vicino a diventare Dio? O ti senti soltanto un povero idiota che ha un giavellotto di tre metri conficcato nel ventre e senti il freddo acciaio dove soleva esserci il fegato? Fa male, vero? Sento il tuo dolore. Sento il mio dolore.

Alla fin fine, non importa un fico. Pensavamo di essere speciali, di aprire le nostre percezioni, di affilare la nostra empatia, di versare sulla pista da ballo del linguaggio quel calderone di dolore condiviso e poi cercare di rendere un minuetto tutta quella caotica sofferenza. Non importa un fico. Non siamo l'Avatar, non siamo il figlio di dio o dell'uomo. Siamo soltanto noi stessi: scribacchiamo le nostre immagini barocche da soli, leggiamo da soli, moriamo da soli.

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