— Ora la situazione è diversa — disse il Console, senza girarsi. — Le maree del tempo sono impazzite. Lo Shrike va dove gli piace. Forse il fenomeno che impediva l'atterraggio di veicoli con equipaggio umano non si verifica più.
— E forse la sua nave atterrerà perfettamente senza di noi — disse Arundez. — Come tante altre, prima di questa.
— Maledizione — gridò il Console, girandosi di scatto. — Conosceva i rischi, quando ha detto di voler venire con me!
L'archeologo annuì, calmo. — Non mi riferisco al rischio che corro io, signore. Lo corro volentieri, se significa la possibilità di aiutare Rachel… anche solo di rivederla. Mi preoccupo per lei, Console: è la sua vita che potrebbe racchiudere la chiave della sopravvivenza della razza umana.
Il Console agitò i pugni, andò avanti e indietro come una belva in gabbia. — Non è giusto! Sono già stato la pedina di Gladstone. Quella donna mi ha usato, cinicamente, deliberatamente. Ho ucciso quattro Ouster, Arundez. Li ho uccisi per attivare quel maledetto congegno e aprire le Tombe. Crede che mi accoglieranno a braccia aperte?
L'archeologo non batté ciglio. — Gladstone ritiene che saranno disposti a parlamentare.
— Chi può dire che cosa faranno? O quali siano le vere intenzioni di Gladstone? Me ne frego dell'Egemonia e delle sue relazioni con gli Ouster. Vorrei sinceramente che la peste li cogliesse tutti.
— A costo delle sofferenze dell'umanità?
— Non conosco l'umanità — disse il Console, con tono piatto, stanco. — Conosco Sol Weintraub. E Rachel. E una donna ferita di nome Brawne Lamia. E padre Paul Duré. E Fedmahn Kassad. E…
Risuonò la voce ben modulata della nave: — Hanno fatto breccia nel perimetro nord dello spazioporto. Inizio le fasi finali di decollo. Per favore, sedetevi nelle cuccette.
Il Console quasi barcollò nella piazzuola, sotto la pressione del campo di contenimento interno che bloccava al proprio posto ogni oggetto e proteggeva i passeggeri molto meglio di cinghie e reti di sicurezza, mentre a poco a poco il differenziale verticale aumentava a dismisura. Una volta in caduta libera, il campo sarebbe diminuito di intensità ma avrebbe sostituito la gravità planetaria.
L'aria sopra la piazzuola si annebbiò e mostrò il pozzo di lancio e lo spazioporto che rimpicciolivano rapidamente, l'orizzonte e le montagne lontane che s'inclinavano di scatto mentre la nave si lanciava in manovre diversive a 80 g. Raggi di armi a energia guizzarono nella loro direzione, ma le colonne di dati mostrarono che i campi esterni ne controllavano l'effetto trascurabile. Poi l'orizzonte si allontanò e si curvò, mentre il cielo color lapislazzuli si scuriva nel nero dello spazio.
— Destinazione? — domandò la nave.
Il Console chiuse gli occhi. Dietro di loro, un segnale acustico squillò per annunciare che Theo Lane poteva essere rimosso dalla vasca di ricupero del reparto chirurgico principale.
— Quanto tempo occorre per mettersi in contatto con la flotta di invasione degli Ouster? — domandò il Console.
— Trenta minuti, per lo Sciame vero e proprio.
— E quanto occorre per arrivare a tiro delle loro navi di assalto?
— Siamo già a tiro.
Melio Arundez sembrava calmo, ma le dita serrate sul bordo del divano della piazzuola erano livide.
— Va bene — disse il Console. — Punta sullo Sciame. Evita le navi dell'Egemonia. Annuncia su tutte le frequenze che siamo una nave diplomatica disarmata e che vogliamo parlamentare.
— Questo messaggio è già stato autorizzato e predisposto dal PFE Gladstone, signore. In questo momento è trasmesso su tutte le frequenze radio e astrotel.
— Procedi — disse il Console. Indicò il comlog di Arundez. — Riesce a vedere l'ora?
— Sì. Sei minuti all'istante esatto della nascita di Rachel.
Il Console si abbandonò sul sedile, chiuse gli occhi. — Ha fatto un mucchio di strada per nulla, dottor Arundez.
L'archeologo si alzò, barcollò un istante prima di trovare l'equilibrio nella gravità simulata e si accostò al pianoforte. Rimase lì un momento, a guardare dalla vetrata del balcone il cielo nero e il limbo ancora vivido del pianeta che rimpiccioliva. — Forse no — disse. — Forse no.
38
Oggi siamo entrati in un territorio paludoso che riconosco come l'Agro Pontino; per celebrare l'avvenimento, ho un altro attacco di tosse che si conclude con uno sbocco di sangue. Molto più di prima. Leigh Hunt mi sta accanto, preoccupato e frustrato; mi sorregge per le spalle durante gli spasmi, poi mi aiuta a ripulirmi i vestiti, con stracci bagnati nel vicino ruscello; mi chiede: — Cosa posso fare?
— Raccogliere fiori di campo — ansimo. — Joseph Severn li raccolse.
Si gira con un gesto di rabbia, senza capire che, pur sfinito e febbricitante, dico semplicemente la verità.
La piccola carrozza e il cavallo stanco attraversano l'Agro, con scossoni e sobbalzi più dolorosi e numerosi di prima. Più tardi, nel pomeriggio, passiamo davanti a scheletri di cavallo lungo la strada, poi alle rovine di una vecchia locanda, poi alle rovine più massicce di un viadotto invaso dal muschio, e infine a pali sui quali sembra siano stati inchiodati stecchi bianchi.
— Cosa diavolo è, quella roba? — domanda Hunt.
— Ossa di briganti — rispondo, dicendo la verità.
Hunt mi guarda come se la malattia m'avesse sconvolto la mente. Forse ha ragione.
Più tardi usciamo dal terreno paludoso e scorgiamo fuggevolmente un lampo rosso che si muove molto lontano nei campi.
— E quello cos'è? — domanda Hunt, ansioso e speranzoso. Si aspetta, lo so, di vedere gente da un momento all'altro e, subito dopo, la sagoma di un teleporter funzionante.
— Un cardinale. — Dico di nuovo la verità. — Che spara agli uccelli.
Hunt consulta il comlog rovinato. — I cardinali sono uccelli — dichiara.
Annuisco, guardo verso ponente, ma il rosso è scomparso. — E anche ecclesiastici — replico. — Ci avviciniamo a Roma, sa?
Hunt mi guarda storto; per la millesima volta tenta di mettersi in contatto con qualcuno, sulle bande di trasmissione del comlog. Il pomeriggio è silenzioso, a parte il cigolio ritmico delle ruote di legno della vettura e il trillo lontano di qualche uccello canoro. Un cardinale, forse?
Entriamo in Roma mentre il primo rossore della sera tocca le nuvole. La piccola carrozza sobbalza e rumoreggia attraverso la Porta Laterana e quasi subito ci troviamo di fronte il Colosseo, invaso di edera e casa di migliaia di colombi, ma molto più impressionante delle olografie delle rovine: non è all'interno dei sudici confini di una città del dopoguerra circondata da arcologie giganti, ma si staglia contro grappoli di casette e di campi aperti dove la città termina e la campagna inizia. Scorgo in lontananza la Roma vera e propria: una manciata di tetti e di rovine più piccole sui leggendari Sette Colli; ma qui il Colosseo domina.
— Cristo — mormora Leigh Hunt. — Che cos'è?
— Le ossa di briganti — dico lentamente, per paura di un altro attacco della mia terribile tosse.
Proseguiamo con rumore di zoccoli nelle vie deserte della Roma del XIX secolo della Vecchia Terra, mentre la sera cala pesantemente intorno a noi, la luce svanisce e i colombi volano in cerchio sopra le cupole e i tetti della Città Eterna.
— Dov'è, la gente? — mormora Hunt. Sembra spaventato.
— Non qui, perché non è necessaria — rispondo. La mia voce suona aspra e pungente, nella penombra delle vie cittadine. Ora le ruote passano sopra l'acciottolato di un fondo stradale, irregolare quasi quanto la strada sassosa appena lasciata.
— È uno stim-sim? — domanda Hunt.
— Ferma il carro — dico; ubbidiente, il cavallo si ferma. Indico una grossa pietra accanto al canale di scolo. Mi rivolgo a Hunt: — La prenda a calci.
Mi guarda, accigliato, ma smonta, si accosta alla pietra e le molla un calcione. Altri colombi si alzano rapidamente nel cielo, dalle torri campanarie e dall'edera, spaventati dalle imprecazioni di Hunt.