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Il Console si aggiustò gli occhiali da sole. — E lei, padre?

Duré scosse la testa. — Aspetto che la machina più grande di tutte produca il proprio deus… l'universo. Quanta parte della mia esaltazione di San Teilhard è sgorgata dal semplice fatto che nel mondo d'oggi non ho trovato segno di un Creatore vivente? Come le intelligenze del TecnoNucleo, cerco anch'io di fabbricare quel che non trovo da altre parti.

Sol guardò il cielo. — E quale deus cercano gli Ouster?

— La loro ossessione nei confronti di Hyperion è reale — rispose il Console. — Sono convinti che questo sarà il luogo di nascita di una nuova speranza per la razza umana.

— Faremo meglio a ridiscendere — disse Sol, riparando dal sole Rachel. — Brawne e Martin saranno di ritorno prima di cena.

Ma non tornarono prima di cena. E neppure al tramonto. Ogni ora, il Console andava all'imboccatura della valle, saliva sopra un masso e scrutava le dune e le pietraie, cercando una traccia di movimento. Non ne vide. E rimpianse che Kassad non avesse lasciato il binocolo a energia.

Ancora prima che il cielo si scurisse nel crepuscolo, le esplosioni di luce allo zenit annunciarono che nello spazio la battaglia continuava. I tre si sedettero sul gradino più alto della Sfinge e guardarono lo spettacolo: lente eplosioni di luce bianchissima, fiori di rosso opaco, striature improvvise di verde e d'arancione che lasciavano echi retinici.

— Chi pensi che stia vincendo? — disse Sol.

Il Console non alzò gli occhi. — Non ha importanza. Stanotte sarà meglio dormire in un posto diverso? Aspettare in un'altra Tomba?

— Non posso lasciare la Sfinge — disse Sol. — Se volete, andate pure.

Duré toccò la guancia della piccina. Rachel poppava il tranquillante e la guancia si mosse sotto il dito del prete. — Quanti giorni ha, adesso? — domandò Duré.

— Due. Quasi esatti. In questa latitudine sarebbe nata circa quindici minuti dopo il tramonto. Tempo di Hyperion.

— Vado su a guardare un'ultima volta — disse il Console. — Poi faremo una sorta di falò per aiutarli a trovare la strada nel buio.

Il Console era a metà scalinata, quando Sol si alzò e puntò il dito. Non verso l'imboccatura della valle che brillava nel sole basso, ma dalla parte opposta, verso le ombre della valle stessa.

Il Console si fermò e gli altri due lo raggiunsero. Il Console prese di tasca il piccolo storditore neurale avuto da Kassad parecchi giorni prima. Vista l'assenza di Lamia e del colonnello, era l'unica arma in loro possesso.

— La vedi? — bisbigliò Sol.

La figura si muoveva nel buio al di là del debole bagliore della Tomba di Giada. Non sembrava abbastanza grande, né rapida di movimenti, da essere lo Shrike; avanzava in maniera bizzarra… lentamente, a volte arrestandosi per mezzo secondo, ondeggiando.

Padre Duré lanciò un'occhiata all'imboccatura della valle. — È possibile che Martin Sileno sia entrato da quella parte?

— No, a meno che non sia saltato giù dalla parete di roccia — rispose il Console in un bisbiglio. — O che abbia fatto un giro di otto chilometri verso nordest. E poi, è troppo alto per essere Sileno.

La figura si soffermò di nuovo, ondeggiò, cadde. Vista da più di cento metri, pareva un altro dei sassi sparsi nella valle.

— Andiamo — disse il Console.

Non si misero a correre. Il Console li precedette in fondo alla scalinata, storditore pronto e regolato su venti metri, pur sapendo che a quella distanza l'effetto neurale sarebbe stato minimo. Padre Duré venne subito dopo, reggendo la piccina, mentre Sol cercava una pietra.

— Davide e Golia? — domandò Duré, quando Sol raccolse un sasso e lo mise nella fionda che si era fabbricato quel pomeriggio usando un rivestimento in fibrolastica.

Sopra la barba, il viso abbronzato di Sol diventò ancora più scuro. — Più o meno — rispose l'anziano studioso. — Ecco fatto, mi riprendo Rachel.

— Mi piace, portarla. E se ci sarà uno scontro, è meglio che voi due abbiate le mani libere.

Sol annuì e si pose a fianco del Console; a qualche passo, seguiva il prete con in braccio la piccina.

A quindici metri fu chiaro che la figura per terra era un uomo, un uomo molto alto che indossava un rozzo abito talare, disteso bocconi sulla sabbia.

— Restate qui — disse il Console e si mise a correre. Gli altri due lo guardarono rigirare l'uomo, mettersi in tasca lo storditore e sganciare dalla cintura la borraccia.

Sol avanzò al piccolo trotto, sentendo la stanchezza sotto forma di un piacevole senso di vertigine. Duré lo seguì più lentamente.

Quando il prete giunse nel cono di luce emesso dalla torcia del Console, vide che il cappuccio, tirato indietro, rivelava un viso allungato, dai tratti vagamente asiatici, distorto in maniera bizzarra e illuminato anche dal bagliore della Tomba di Giada.

— Un Templare — esclamò, sorpreso di trovare lì un seguace del Muir.

— La Vera Voce dell'Albero — disse il Console. — Il primo dei pellegrini dispersi… Het Masteen.

21

Per tutto il pomeriggio Martin Sileno aveva lavorato al poema epico; solo la scomparsa della luce lo indusse a interrompere il lavoro.

Aveva scoperto che il suo vecchio studio era stato saccheggiato e che il tavolino antico era scomparso. Il palazzo di re Billy il Triste aveva subito la parte peggiore delle ingiurie del tempo: tutte le finestre in frantumi, dune in miniatura sui tappeti scoloriti che un tempo valevano fortune, topi e piccole anguille delle rocce annidati fra le pietre cadute. Le torri di residenza erano la casa delle colombe e dei falchi da caccia inselvatichiti. Alla fine il poeta era tornato alla Sala Comune; sotto la grande cupola geodesica della sala da pranzo si era seduto a un tavolino e si era messo a scrivere.

Polvere e detriti coprivano il pavimento di ceramica; in alto, i rampicanti del deserto, con le loro sfumature scarlatte quasi oscuravano i vetri infranti; ma Sileno non badò a quei particolari privi d'importanza e lavorò per ultimare i Canti.

Il poema parlava della morte e della destituzione dei Titani a opera della loro prole, gli dèi ellenici. Parlava della lotta olimpica che seguì il rifiuto dei Titani di farsi destituire… il ribollire di mari smisurati, mentre Oceano lottava contro l'usurpatore Nettuno; l'estinzione di soli, mentre Iperone lottava contro Apollo, per il dominio sulla luce; il tremito dell'universo stesso, mente Saturno lottava contro Giove, per il possesso del trono degli dèi. C'era in palio non il semplice passaggio da una serie di dèi all'altra, ma la fine di un'età dell'oro e l'inizio di tempi oscuri che avrebbero segnato il destino di tutte le cose mortali.

I Canti di Hyperion non facevano segreto delle molteplici identità di questi dèi: i Titani erano facilmente riconoscibili come gli eroi della breve storia della razza umana nella galassia, gli usurpatori dell'Olimpo erano le IA del TecnoNucleo, il campo di battaglia si estendeva per i continenti, gli oceani, le rotte aeree dei mondi della Rete. Fra tutto questo, il mostro Dite, figlio di Saturno ma ansioso di ereditarne con Giove il regno, dava la caccia alla preda, mietendo dèi e mortali.

I Canti riguardavano anche la relazione fra creature e creatore, l'amore tra genitore e figli, fra artisti e la propria arte, tutti creatori e creazioni. Il poema celebrava l'amore e la fedeltà, ma pencolava sull'orlo del nichilismo, suggerendo la costante minaccia di corruzione per amore del potere, dell'ambizione umana e dell'hubris intellettuale.

Per più di due secoli standard Martin Sileno aveva lavorato ai Canti. Aveva scritto le parti migliori proprio in quell'ambiente: la città abbandonata, i venti del deserto che gemevano come sinistri cori greci sullo sfondo, la minaccia sempre presente di un'improvvisa interruzione da parte dello Shrike. Salvandosi la vita, andandosene, Sileno aveva abbandonato la propria musa e condannato al silenzio la propria penna. Iniziando a lavorare di nuovo, seguendo quel sentiero sicuro, quel circuito perfetto che solo uno scrittore ricco d'esperienza aveva provato, Martin Sileno si sentì tornare alla vita… vene che si dilatavano, polmoni che si riempivano più a fondo e assaporavano l'intensa luce e l'aria pura senza accorgersi della loro presenza, godendosi ciascun graffio dell'antica penna sulla pergamena, la montagna di pagine già scritte ammucchiate dappertutto sul tavolo circolare, con pezzi di mattone a fungere da fermacarte, mentre la storia fluiva di nuovo liberamente, l'immortalità chiamava a ogni strofa, a ogni verso.

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