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Chiuse gli occhi, inarcò il collo per posporre la sofferenza del piacere che si avvicinava come un'ondata. Sentì sulle labbra sapore di sangue… se il proprio o quello di lei, non sapeva.

Un minuto più tardi, mentre ancora si muovevano insieme, Kassad si accorse di avere le braccia libere. Senza esitare, le circondò la schiena con le dita tese, la spinse rudemente contro di sé, fece scivolare in alto la mano a coppa per premerle gentilmente la nuca.

Il vento riprese a soffiare, il suono tornò, la sabbia mandò dalla cresta della duna minuscoli turbini. Kassad e Moneta scivolarono più in basso lungo il lieve pendio di sabbia, rotolarono insieme nell'onda calda fino al punto dove si sarebbe infranta, dimentichi della notte, della tempesta, della lotta, di ogni cosa, tranne l'istante e la reciproca presenza.

Più tardi, camminando insieme fra le macerie del Monolito di Cristallo, lei lo toccò una volta, con una ferula d'oro, una seconda, con un toroide azzurro. Kassad vide nella scheggia di un pannello di cristallo la propria immagine diventare l'abbozzo argento vivo di un uomo, perfetto fino ai particolari del sesso e le linee dove le costole segnavano il torace magro.

"E ora?" domandò Kassad, usando un mezzo che non era né telepatia né suono.

"Il Signore della Sofferenza aspetta."

"Sei la sua ancella?"

"Mai. Sono la sua consorte e la sua nemesi. La sua custode."

"Sei giunta con lui dal futuro?"

"No. Fui tolta dal mio tempo per viaggiare con lui indietro nel tempo."

"Allora chi eri, prima di…"

La domanda fu interrotta dall'improvvisa apparizione… "No" pensò Kassad "l'improvvisa presenza, non apparizione"… dello Shrike.

La creatura era come la ricordava dal loro primo incontro, anni addietro. Kassad notò la lucidità d'argento vivo su cromo dello Shrike, tanto simile alla loro dermotuta, ma capì istintivamente che sotto il carapace non c'erano semplice carne e semplici ossa. Lo Shrike era alto almeno tre metri, le quattro braccia parevano normali nel tronco elegante, il corpo era una massa scolpita di spine, di punte, di giunti e di strati di filo spinato tagliente come rasoio. Gli occhi dalle mille sfaccettature ardevano di una luce che poteva essere quella di un laser a rubino. La mascella allungata e le file di denti erano da incubo.

Kassad si tenne pronto. Se la dermotuta gli avesse dato la stessa forza e la stessa mobilità di cui si era giovata Moneta, almeno sarebbe morto combattendo.

Non ci fu tempo, per combattere. Un istante il Signore della Sofferenza era a cinque metri di distanza, sul pavimento a piastrelle nere; l'istante successivo fu accanto a Kassad, afferrò l'avambraccio del colonnello in una morsa di lame d'acciaio che penetrarono nel campo della tuta e trassero sangue dal bicipite.

Kassad si tese, aspettò il colpo, deciso a renderlo anche se significava impalarsi da solo su lame e spine.

Lo Shrike alzò la destra: si materializzò un portale da campo, un rettangolo di quattro metri. Era simile a un teleporter, a parte il bagliore violetto che riempì di luce intensa l'interno del Monolito.

Moneta rivolse un cenno a Kassad e varcò il portale. Lo Shrike avanzò di un passo, con le dita simili a rasoi che incidevano solo superficialmente l'avambraccio.

Kassad pensò di ritrarsi, capì che in lui la curiosità era più forte dell'impulso a morire, e varcò il portale insieme con lo Shrike.

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Il Primo Funzionario Esecutivo Meina Gladstone non riusciva a dormire. Si alzò, si vestì rapidamente nel buio delle stanze poste nel cuore della Casa del Governo e, come spesso faceva quando il sonno si rifiutava di venire, andò in giro per i mondi.

Materializzò il teleporter privato, lasciò nell'anticamera le guardie del corpo e prese con sé solo una microguardia telecomandata. Non avrebbe preso neppure quella, se le leggi dell'Egemonia e la regola del TecnoNucleo l'avessero consentito.

Su TC2 la mezzanotte era passata da un pezzo, ma su molti mondi sarebbe stato pieno giorno: Gladstone indossò un lungo mantello con visore polarizzato del tipo in uso su Vettore Rinascimento. Calzoni e stivali non rivelavano né genere né classe sociale, anche se in alcuni luoghi la qualità stessa del mantello avrebbe dato nell'occhio.

Gladstone varcò il portale monouso, intuendo, più che vedere e udire, la microguardia ronzare alle sue spalle e salire per mantenersi invisibile, mentre lei usciva in piazza S. Pietro, a Nuovo Vaticano, su Pacem. Per un secondo non seppe perché avesse scelto quella destinazione — forse la presenza dell'antiquato monsignore alla cena su Bosco Divino — ma poi capì: distesa sul letto senza chiudere occhio, aveva pensato ai pellegrini, ai sette che tre anni prima erano andati incontro al proprio destino su Hyperion. Pacem era la patria di padre Lenar Hoyt… e dell'altro prete, Duré.

Gladstone scrollò le spalle e attraversò la piazza. Visitare il mondo natale dei pellegrini era una passeggiata buona quanto un'altra; molte notti insonni l'avevano vista vagabondare su decine di mondi e tornare poco prima dell'alba, ai primi appuntamenti su Tau Ceti Centro. Almeno, in questo caso erano solo sette mondi.

Su Pacem il mattino era appena iniziato. Il cielo era giallo e screziato di nuvole verdastre; l'aria era permeata da un odore di ammoniaca che le assalì le mucose nasali e le fece lacrimare gli occhi. Pacem aveva quel lieve lezzo chimico di un mondo non del tutto terraformato né totalmente nemico all'uomo. Gladstone si soffermò a guardarsi intorno.

S. Pietro si trovava sopra un colle; la piazza era racchiusa da un semicerchio di colonne con una grande basilica a un vertice. A destra, dove il colonnato si apriva su una scalinata che scendeva per più di un chilometro verso sud, si vedeva una piccola città di edifici bassi e rozzi ammassati fra alberi bianco osso che parevano scheletri di creature stentate da tempo scomparse.

Solo poche persone erano in vista: attraversavano in fretta la piazza o salivano la scala, come se fossero in ritardo alle funzioni. Dalla grande cupola della cattedrale provenne il suono di campane, ma l'aria rarefatta toglieva ai rintocchi ogni parvenza di autorità.

Gladstone percorse il colonnato, a testa bassa, senza badare alle occhiate di curiosità dei religiosi e della squadra di spazzini a cavallo di animali simili a porcospini da mezza tonnellata. C'erano decine di mondi di periferia come Pacem, nella Rete, un numero maggiore nel Protettorato e nella vicina Periferia: troppo poveri per risultare interessanti a una popolazione infinitamente mobile, troppo simili alla Terra per essere ignorati durante gli anni bui dell'Egira. Pacem era andato bene a un piccolo gruppo come i cattolici, giunti lì a cercare la rinascita della fede. A quel tempo i cattolici si contavano a milioni, ma ora arrivavano a poche decine di migliaia. Gladstone chiuse gli occhi e richiamò ologrammi del dossier di padre Paul Duré.

Gladstone amava la Rete. Amava gli esseri umani che vi vivevano; con tutta la loro superficialità, l'egoismo, l'incapacità di cambiare, erano la sostanza della razza umana. Gladstone amava la Rete. L'amava abbastanza da sapere di dover collaborare alla sua distruzione.

Ritornò al piccolo terminex a tre portali, con un semplice comando prioritario alla sfera dati materializzò il proprio nesso teleporter e passò nella luce del sole e nel profumo del mare.

Patto-Maui. Gladstone seppe esattamente dove si trovava. Era ferma sulla collina prospiciente Primosito, dove la tomba di Siri segnava ancora il punto in cui quasi un secolo prima era iniziata la rivolta di breve durata. A quel tempo, Primosito era un villaggio di qualche migliaio di anime e a ogni Settimana di Festa i flautisti davano il benvenuto alle isole mobili spinte a nord verso i pascoli dell'Arcipelago Equatoriale. Ora Primosito si estendeva intorno all'isola fino a scomparire alla vista: arcocittà e alveari residenziali si alzavano per mezzo chilometro in ogni direzione, torreggiavano sopra la collina che un tempo godeva del più bel panorama del mondo marino di Patto-Maui.

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