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Duré tenne fra le mani la tazza di caffè come se si preparasse a sollevarla per la consacrazione. Alzò lo sguardo: gli occhi indicavano in uguale misura profonda intelligenza e intensa tristezza. — Prima che morissi? — disse. Tese in un sorriso le labbra aristocratiche. — Sì, ricordo. L'esilio, i Bikura… — Abbassò lo sguardo. — Anche l'albero tesla.

— Hoyt ci ha parlato dell'albero — disse Brawne Lamia. Nella foresta di fuoco, padre Duré si era inchiodato a un albero tesla attivo e aveva patito anni di sofferenza, di morte, di risurrezione, ancora di morte, pur di non cedere alla facile vita in simbiosi col crucimorfo.

Duré scosse la testa. — Credevo… in quegli ultimi istanti… di averlo sconfitto.

— E l'aveva sconfitto — disse il Console. — Padre Hoyt e gli altri la trovarono. Lei era riuscito a scacciare da sé il parassita. Ma i Bikura trapiantarono su Lenar Hoyt anche il suo crucimorfo.

Duré annuì. — E non c'è traccia del giovane Hoyt?

Martin Sileno indicò il petto dell'uomo. — Sembra chiaro che quella cosa di merda non può sfidare la legge della conservazione di massa. La sofferenza di Hoyt è stata enorme e interminabile… non voleva tornare dove il parassita voleva spingerlo… tanto da essere troppo magro per… come diavolo possiamo chiamarla? duplice risurrezione?

— Non importa — disse Duré. Sorrise tristemente. — Il parassita DNA nel crucimorfo ha pazienza infinita. Riforma l'ospite per generazioni, se occorre. Presto o tardi, tutt'e due i crucimorfi avranno una casa.

— Ricorda qualcosa, dopo l'albero tesla? — domandò Sol a bassa voce.

Duré sorseggiò le ultime gocce di caffè. — Della morte? Del paradiso o dell'inferno? — Il sorriso era genuino. — No, signori e signora. Mi piacerebbe poter dire che ricordo. Ma ricordo solo sofferenza… una eternità di sofferenza… e poi la liberazione. E poi le tenebre. E poi il risveglio qui. Quanti anni sono trascorsi?

— Circa dodici — rispose il Console. — Ma solo la metà, per padre Hoyt: lui ha trascorso in crio-fuga parte del tempo.

Padre Duré si alzò, si stiracchiò, andò avanti e indietro. Era alto, magro, ma con un'aria di forza; Brawne Lamia fu impressionata dalla sua presenza, dal quel bizzarro, inspiegabile carisma di personalità che da epoche immemorabili è stato maledizione e fonte di potere per un limitato numero di persone. Ma si disse che, primo, lui era sacerdote di una religione che esigeva il celibato e, secondo, che solo un'ora prima era un cadavere. Guardò l'anziano prete andare avanti e indietro, con movimenti eleganti e rilassati da gatto, e capì che tutt'e due le osservazioni erano vere, ma nessuna delle due poteva controbattere il magnetismo personale che il prete emanava. Si domandò se anche gli uomini lo percepivano.

Duré si sedette su di un sasso, allungò davanti a sé le gambe, si massaggiò le cosce come per scacciare un crampo. — Mi avete detto qualcosa su di voi… sul perché vi trovate qui — disse. — Potete aggiungere altri particolari?

I quattro pellegrini si scambiarono un'occhiata.

Duré annuì. — Credete che sia un mostro? Un agente dello Shrike? Non vi biasimerei, in questo caso.

— Non lo pensiamo — disse Brawne Lamia. — Lo Shrike non ha bisogno di agenti per realizzare il proprio volere. E poi, la conosciamo dal racconto di padre Hoyt e dai suoi diari. — Lanciò agli altri un'occhiata. — Ma ci riesce… difficile… raccontare la nostra storia e i motivi che ci hanno portati su Hyperion. Ci è quasi impossibile ripetere il racconto.

— Ho preso appunti sul comlog — disse il Console. — Sono molto condensati, ma dovrebbero farle capire la storia di ciascuno di noi… e dell'ultimo decennio dell'Egemonia. Il motivo per cui la Rete è in guerra con gli Ouster. Questo genere di cose. Può approfittarne, se vuole. Non perderà più di un'ora.

— Gliene sono grato — disse padre Duré. Seguì il Console dentro la Sfinge.

Brawne Lamia, Sol e Sileno andarono all'imboccatura della valle. Dalla sella fra le basse pareti, le dune e le terre desertiche si estendevano verso le montagne della Briglia, meno di dieci chilometri a sudovest. Le cupole infrante, le morbide guglie, le balconate in rovina della Città dei Poeti ormai morta erano visibili a non più di tre chilometri sulla destra, lungo un ampio crinale che ormai il deserto invadeva silenziosamente.

— Torno al Castello a fare provviste — disse Lamia.

— Non mi piace dividere il gruppo — obiettò Sol. — Ci torneremo tutti insieme.

Martin Sileno incrociò le braccia. — Qualcuno dovrebbe restare qui, nel caso che il colonnello torni.

— Prima di andarcene — disse Sol — dovremmo frugare tutta la valle. Stamane il Console non si è spinto molto al di là del Monolito.

— Sono d'accordo — disse Lamia. — Frughiamo la valle, prima che si faccia tardi. Voglio rifornirmi al Castello e tornare prima di notte.

Erano scesi alla Sfinge, quando Duré e il Console ne uscirono. Il prete reggeva il comlog di scorta del Console. Lamia illustrò il piano di ricerca e i due acconsentirono a partecipare.

Ancora una volta esplorarono i corridoi della Sfinge, con il raggio delle torce a mano e delle matite laser che illuminavano pietra trasudante e angoli inconsueti. Poi uscirono di nuovo nella luce di mezzogiorno e percorsero i trecento metri fino alla Tomba di Giada. Lamia rabbrividì, quando entrarono nella stanza dove la notte prima lo Shrike era comparso. Il sangue di Hoyt aveva lasciato sul pavimento di ceramica verde una macchia color ruggine. Non c'era segno dell'apertura trasparente che portava nel labirinto sotterraneo. Non c'era segno dello Shrike.

L'Obelisco non aveva stanze, solo un pozzo centrale dove una rampa a chiocciola, troppo ripida per risultare agevole agli esseri umani, s'innalzava fra pareti color ebano. Lì anche i bisbigli echeggiavano e il gruppetto ridusse al minimo la conversazione. Non c'erano finestre, né panorama, in cima alla rampa, cinquanta metri al di sopra del pavimento di pietra: il raggio delle torce illuminava solo tenebre nel soffitto alto e curvo. Funi fisse e catene rimaste dopo due secoli di turismo consentirono la discesa senza eccessiva paura di scivoloni e di cadute che avrebbero significato morte certa. Quando si soffermarono all'ingresso, ancora una volta Martin Sileno chiamò a gran voce Kassad e gli echi li seguirono nella luce del sole.

Impiegarono mezz'ora o forse più a ispezionare i danni nelle vicinanze del Monolito di Cristallo. Pozze di sabbia mutata in vetro, larghe da cinque a dieci metri, scomponevano la luce e riflettevano loro in viso il calore. La superficie del Monolito, ora butterata di fori e di filamenti di cristallo fuso ancora penzolanti, sembrava il bersaglio di un atto di folle vandalismo, ma ciascuno sapeva che Kassad aveva certamente lottato per la propria vita. Non c'era porta né ingresso all'alveare labirinto. Gli strumenti rivelarono che l'interno era vuoto e privo di collegamenti, com'era sempre stato. Lasciarono con riluttanza il Monolito e percorsero le ripide piste fino alla base della parete nord dove, a meno di cento metri l'una dall'altra, c'erano le Grotte.

— I primi archeologi ritennero che queste fossero le Tombe più antiche, a causa della struttura grossolana — disse Sol, mentre entravano nella prima grotta e mandavano raggi di luce a giocare sulla pietra scolpita in migliaia di disegni indecifrabili. Nessuna grotta era profonda più di una quarantina di metri. Ciascuna terminava in un muro di pietra di cui né sonde né olocamere radar erano mai riuscite a scoprire l'estensione.

Esplorata la terza Grotta, il gruppetto si sedette nel poco d'ombra che riuscì a trovare e si divise acqua e gallette proteiche prese dalla scorta di razioni da campo di Kassad. Il vento si era levato e ora sospirava e bisbigliava tra le rocce scanalate, più in alto.

— Non lo troveremo — disse Martin Sileno. — Lo Shrike di merda l'ha preso.

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