Capii che gli uomini vestiti di rosso erano sacerdoti del Culto Shrike; la folla rispondeva, prima con grida sparse di assenso, qualche "Sì, sì!" e qualche "Amen!" di tanto in tanto, poi con una salmodia all'unisono, pugni alzati e agitati sopra la testa, feroci grida di estasi. Una scena a dir poco inconsueta. In quel periodo, dal punto di vista religioso, la Rete ricordava molto la Roma della Vecchia Terra poco prima dell'Era cristiana: una politica di tolleranza e una miriade di religioni (per la maggior parte, come lo Gnosticismo Zen, complesse e rivolte all'introspezione, non al proselitismo), mentre il tenore generale era di leggero cinismo e di indifferenza.
Ma non ora, non in quella piazza.
In quel momento pensavo che nei secoli recenti le sommosse in pratica non erano esistite: perché si formi una folla tumultuante sono necessarie riunioni pubbliche, ma nel nostro tempo le riunioni pubbliche consistevano di individui in comunione tramite la Totalità o altri canali della sfera dati; è difficile creare una sommossa, quando ogni persona dista chilometri e anni-luce dalle altre, collegata solo mediante linee di comunicazione e cavi astrotel.
All'improvviso fui strappato dalle mie fantasticherie: il ruggito della folla era diventato silenzio, mentre migliaia di facce si giravano nella mia direzione.
— E laggiù c'è uno di loro! — gridava il sant'uomo del Culto Shrike, con uno sventolio di vesti rosse, additandomi. — Uno di quelli che appartengono al circolo ristretto dell'Egemonia… uno di quei peccatori che con le loro trame oggi hanno portato su di noi la Redenzione. Lui e quelli come lui vogliono che lo Shrike Avatar faccia pagare a voi i loro peccati, e si nascondono al sicuro nei mondi segreti approntati dal governo dell'Egemonia proprio per un simile giorno!
Posai la tazza di caffè, mandai giù l'ultimo boccone di pasta fritta, fissai il sant'uomo. Diceva un mucchio di stupidaggini. Ma come sapeva che ero giunto da TC2? O che potevo mettermi in contatto con Gladstone? Guardai meglio, schermandomi gli occhi e cercando di non badare alla gente che agitava il pugno nella mia direzione, e mi concentrai sulla faccia dell'uomo in veste rossa…
Oddio, era Spenser Reynolds! L'artista mimico che durante il nostro ultimo incontro aveva cercato di dominare la conversazione, nella cena al Treetops. Si era rasato completamente i capelli ricci e ben pettinati, lasciandosi solo un codino, secondo i dettami del Culto Shrike; ma il viso era ancora abbronzato e bello, anche se stravolto dalla rabbia simulata e dal fanatismo di un vero credente.
— Prendetelo! — gridò Reynolds, agitatore del Culto Shrike, sempre indicando me. — Prendetelo e fate in modo che paghi, per la distruzione delle nostre case, per la morte delle nostre famiglie, per la fine del nostro mondo!
Mi guardai davvero alle spalle, sicuro che quel pomposo poseur non parlasse di me.
Intanto una parte di spettatori si era mutata in folla tumultuante: un'ondata di persone vicino al demagogo urlante si mosse verso di me, fra agitare di pugni e volare di sputi, e quell'ondata ne spinse altre più lontano dal centro, finché le frange di folla si mossero anch'esse nella mia direzione per evitare di essere calpestate.
L'ondata divenne una massa urlante di rivoltosi; in quel momento, la somma dei quozienti d'intelligenza era molto inferiore a quella del più modesto componente singolo. La folla ha passioni, non cervello.
Non volevo fermarmi a spiegare loro il concetto. La folla si divise e cominciò a lanciarsi su per le ali della scalinata. Alle spalle avevo una porta sbarrata da assi di legno. Mi girai e provai ad aprirla. Era chiusa con un catenaccio.
La presi a calci; al terzo tentativo la porta si sfasciò. La varcai appena in tempo per sfuggire alle mani protese e mi lanciai di corsa su per una scala buia in un corridoio che puzzava di antico e di muffa. Mi giunsero grida e fracasso di legno fatto a pezzi, quando la folla demolì la porta.
Al secondo piano c'era un alloggio, anche se dall'esterno l'edificio era parso abbandonato. La porta non era chiusa a chiave. La spalancai, quando dalla rampa in basso mi giunse il rumore di passi.
— Per favore, aiuto… — Mi fermai di colpo. Nella stanza buia c'erano tre donne, forse tre generazioni femminili della stessa famiglia, perché si rassomigliavano un poco. Sedevano su poltrone cadenti, vestivano stracci luridi, tenevano le braccia distese, le dita livide strette su sfere invisibili; un sottile cavo metallico si arricciava fra i capelli canuti della donna più anziana e arrivava al pacchetto nero posto sul piano impolverato del tavolo. Cavetti identici si snodavano dal cranio della figlia e della nipote.
Neurocavodipendenti. All'ultimo stadio di anoressia da collegamento, a occhio e croce. Senza dubbio di tanto in tanto qualcuno veniva a nutrirle per endovena e a cambiare loro gli indumenti sporchi, ma forse la paura della guerra aveva tenuto lontano chi se ne occupava.
Il rumore di passi risuonò sulle scale. Chiusi la porta e salii di corsa altre due rampe. Porte chiuse a chiave o stanze con pozze d'acqua che sgocciolava da cannicci esposti. Iniettori vuoti di Flashback sparsi in giro come bulbi di bevande analcoliche. "Non è un vicinato di prima categoria" pensai.
Raggiunsi il tetto, con dieci passi di vantaggio sulla muta di inseguitori. Se per il distacco dal guru la folla aveva perso un poco dell'irrazionale passione, lo riguadagnò nello spazio buio e claustrofobico della rampa di scale. Forse aveva dimenticato perché mi dava la caccia, ma questo non rendeva più piacevole l'idea che mi catturassero.
Mi sbattei la porta alle spalle e cercai un chiavistello, qualcosa per barricare il corridoio. Non c'era chiavistello. Niente di tanto grosso da bloccare il vano della porta. Passi frenetici risuonarono sull'ultima rampa di scale.
Esaminai il tetto: miniriflettori parabolici per comunicazioni spaziali sparsi come funghi rugginosi capovolti, una corda da bucato dimenticata forse da anni, cadaveri decomposti di una decina di colombi, una Vikken Scenic vecchissima.
Raggiunsi il VEM prima che il più rapido degli inseguitori varcasse la porta. La Vikken era un pezzo da museo. Polvere ed escrementi di colombi oscuravano quasi il parabrezza. Qualcuno aveva rimosso i repulsori originali e li aveva sostituiti con apparecchiature a basso costo comprate al mercato nero che non avrebbero mai superato il collaudo. Il tettuccio di perspex era fuso e annerito sul retro, come se qualcuno l'avesse usato da bersaglio per allenarsi con armi laser.
Di maggiore e più immediata importanza, tuttavia, era il fatto che il VEM non aveva lucchetto a impronta del palmo, ma un semplice lucchetto a chiave, forzato da tempo. Mi lanciai sul sedile impolverato e cercai di sbattere la portiera: non si bloccò, ma rimase socchiusa, penzoloni. Non speculai sulle scarse probabilità che il VEM si mettesse in moto né su quelle, ancora più ridotte, di riuscire a trattare con la folla quando mi avesse strappato dalla macchina e trascinato di sotto… se non si fosse limitata a buttarmi giù dal tetto. Dalla piazza saliva il profondo ruggito della folla inferocita.
I primi a sbucare sul tetto furono un uomo tozzo in tuta cachi da meccanico, uno smilzo con l'abito nero opaco all'ultima moda di Tau Ceti, una donna terribilmente grassa che agitava quella che pareva una lunga chiave inglese, e un bassotto in divisa verde delle Forze di Autodifesa di Vettore Rinascimento.
Inserii nel diskey di avviamento la microcarta a priorità assoluta datami da Gladstone. La batteria mandò un gemito, lo starter di transizione brontolò e io chiusi gli occhi e mi augurai che i circuiti fossero a carica solare e ad autoriparazione.
Pugni sbatterono sul tettuccio, mani schiaffeggiarono il perspex ammaccato a pochi centimetri dal mio viso, qualcuno spalancò la portiera nonostante i miei sforzi per tenerla chiusa. Le grida della folla lontana sembravano il rumore di fondo di un oceano; le urla del gruppo sul tetto parevano le strida di gabbiani troppo cresciuti.