Sileno urla.
Il tempo non passa veramente, ma dopo un poco la mente di Sileno torna a qualcosa che sembra l'osservazione lineare… qualcosa di diverso dalle oasi disperse di pura sofferenza, separate dal deserto di dolore ricevuto scioccamente… e in quella percezione lineare della propria sofferenza, Sileno comincia a imporre tempo su un luogo senza tempo.
Per prima cosa, le oscenità aggiungono chiarezza alla sofferenza. Urlare fa male, ma la rabbia chiarisce e chiarifica.
Poi, nelle pause esauste fra le urla o i puri spasmi di dolore, Sileno si concede pensiero. All'inizio si tratta semplicemente di un tentativo di mantenere sequenze, di recitare a mente le tabelline, qualsiasi cosa che separi la sofferenza di dieci secondi prima dalla sofferenza a venire. Sileno scopre che, nello sforzo di concentrarsi, la sofferenza diminuisce un poco: è sempre insopportabile, spinge sempre come fumo al vento ogni pensiero, ma diminuisce di una quantità imprecisabile.
Allora Sileno si concentra. Urla e grida e si contorce, ma si concentra. Poiché non ha altro su cui concentrarsi, si concentra sul dolore.
Il dolore, scopre, ha una struttura. Ha una pianta. Ha disegni più intricati del guscio di un nautilus, tratti più barocchi della cattedrale gotica più ricca di contrafforti. Anche mentre urla, Martin Sileno studia la struttura di questo dolore. Si rende conto che è una poesia.
Inarca corpo e collo per la millesima volta, cerca sollievo dove nessun sollievo è possibile, ma stavolta vede una figura nota, cinque metri più in alto, infilzata in una spina simile alla sua, che si agita sotto l'irreale brezza della sofferenza.
— Billy! — ansima Sileno. È il suo primo pensiero vero e proprio.
Il suo ex signore e mecenate fissa un abisso invisibile, reso cieco dal dolore che ha accecato Sileno, ma si gira leggermente come in risposta al proprio nome urlato in questo posto al di là dei nomi.
— Billy! — grida di nuovo Sileno; poi, per il dolore, perde vista e pensiero. Si concentra sulla struttura del dolore, ne segue il disegno come se seguisse il contorno del tronco, dei rami, dei ramoscelli, delle spine dell'albero stesso. — Maestà!
Al di sopra delle grida, ode una voce e con stupore scopre che grida e voce sono sue:
…tu sei una cosa sognante;
febbre di te stesso… pensa alla Terra;
quale felicità esiste per te, anche nella speranza, solamente?
Quale asilo? Ogni creatura ha dimora;
ogni uomo vive giorni di gioia e di dolore,
che abbia compiuto imprese sublimi o infime…
solo il dolore solo la gioia, distinti:
il sognante, appena, avvelena tutti i suoi giorni,
subisce più dolore di quanto meritino i suoi peccati.
Riconosce i versi, non suoi, di John Keats, e sente che le parole accrescono la struttura dell'apparente caos di dolore che lo circonda. Capisce che il dolore è stato con lui fin dalla nascita… il dono dell'universo a un poeta. È un riflesso fisico del dolore, quello che ha sentito e cercato inutilmente di mettere in versi, d'appuntare in prosa, per tutti gli inutili anni di vita. È peggio del dolore; è infelicità perché l'universo offre dolore a tutti.
Il sognante, appena avvelena tutti i suoi giorni,
soffre più dolore di quanto meritino i suoi peccati!
Sileno declama a voce alta, ma non grida. Il ruggito di dolore che proviene dall'albero, più psichico che fisico, diminuisce per una minima frazione di secondo. C'è un'isola di turbamento, in quell'oceano di determinazione.
— Martin!
Sileno s'inarca, solleva la testa, cerca di mettere a fuoco la vista tra la foschia di dolore. Re Billy il Triste gracchia una parola che dopo un istante infinito Sileno riconosce: "Ancora!"
Sileno urla di sofferenza atroce, si contorce in uno spasmo di sciocca risposta fisica; ma quando si ferma, penzolando esausto, con il dolore non attenuato ma spinto via dalle zone motrici del cervello dalle tossine della fatica, permette alla voce che ha in sé di gridare e bisbigliare la propria canzone:
Spirito che qui regni!
Spirito che qui soffri!
Spirito che qui bruci!
Spirito che qui piangi!
Spirito! Chino
la fronte,
Ombrata dai tuoi vanni!
Spirito! Guardo
appassionato
I tuoi lividi dominii!
Il piccolo cerchio di silenzio si allarga a includere diversi rami vicini, una manciata di spine con i loro grappoli di esseri umani in extremis.
Sileno fissa re Billy il Triste, vede il suo signore tradito aprire gli occhi afflitti. Per la prima volta in più di due secoli, mecenate e poeta si guardano. Sileno consegna il messaggio che l'ha portato qui, che l'ha appeso lì. — Maestà, sono spiacente.
Prima che Billy possa rispondere, prima che il coro di grida soffochi qualsiasi risposta, l'aria muta, l'impressione di tempo congelato si agita, l'albero si scuote come se tutto intero fosse caduto di un metro. Sileno urla con gli altri, mentre il ramo si scuote e la spina gli lacera le interiora, gli strazia di nuovo la carne.
Sileno apre gli occhi e vede che il cielo è reale, il deserto è reale, le Tombe risplendono, il vento soffia, il tempo è ricominciato. Non c'è diminuzione del tormento, ma la chiarezza è tornata.
Martin Sileno ride fra le lacrime. — Ehi, mamma! — grida, ridacchiando scioccamente, anche se la lancia d'acciaio gli trapassa ancora il petto. — Da quassù vedo tutta la città!
— Signor Severn? Si sente bene?
Ansimando, a quattro zampe, mi girai verso la voce. Aprire gli occhi fu doloroso, ma nessun dolore era paragonabile a quello che avevo appena provato.
— Sta bene, signore?
Accanto a me, nel giardino, non c'era nessuno. La voce proveniva dalla microguardia che ronzava a mezzo metro dal mio viso, controllata da un agente della sicurezza chissà dove nella Casa del Governo.
— Sì — riuscii a dire, tirandomi in piedi e spazzolandomi pietruzze dalle ginocchia. — Sto bene. Un… un dolore improvviso.
— Il pronto soccorso può essere qui in due minuti, signore. Il suo biomonitor non segnala disfunzioni organiche, ma possiamo…
— No, no — dissi. — Sto benissimo. Lasciate stare. E lasciatemi in pace!
La microguardia sfarfallò come un colibrì nervoso. — Sì, signore. Ma chiami, se le occorre qualcosa. Il monitor del giardino risponderà.
— Se ne vada — dissi.
Lasciai il giardino, percorsi il corridoio principale della Casa del Governo, ora pieno di posti di controllo e di guardie della sicurezza, e uscii nel panoramico Parco dei Cervi.
La zona del molo adesso era silenziosa; non avevo mai visto il fiume Teti così immobile. — Cosa succede? — domandai a uno degli agenti della sicurezza fermi sulla banchina.
L'agente si collegò al mio comlog, ottenne conferma del mio livello di priorità e dell'autorizzazione PFE, ma rispose senza fretta. — I portali sono stati deviati da TC2 — disse, con cadenza strascicata. — Aggirati.
— Aggirati? Vuol dire che il fiume non scorre più attraverso Tau Ceti Centro?
— Esatto. — Si calò il visore all'avvicinarsi di una piccola imbarcazione e tornò a sollevarlo, quando identificò a bordo due agenti della sicurezza.
— Posso uscire da quella parte? — Indicai a monte del fiume, dove gli alti portali mostravano un'opaca cortina di grigio.