"A mano a mano che scendevo, la luce divenne più intensa… era adesso un bagliore rosato; dieci minuti dopo, fu rosso intenso; dopo un'altra mezz'ora, cremisi guizzante. Una messa in scena troppo dantesca e fondamentalista da quattro soldi, per i miei gusti. Scoppiai quasi a ridere, al pensiero che comparisse un diavoletto, completo di coda e di tridente e di zoccoli fessi e di baffetti sottili come tratto di matita.
"Ma non risi, quando fu chiara l'origine della luce: crucimorfi, centinaia e migliaia di quei parassiti, piccoli all'inizio, incollati alle scabre pareti della scala come croci grossolanamente intagliate da un conquistador sotterraneo, poi più grossi e più numerosi, fin quasi a sovrapporsi, bioluminescenti di rosa corallo, di rosso carne viva, di rosso sangue.
"Mi venne la nausea. Era come entrare in un pozzo tappezzato di sanguisughe gonfie e pulsanti, anche se i crucimorfi erano peggio. Ho visto i risultati degli esami dell'analizzatore medico a ultrasuoni, fatti a me quando avevo uno solo di quei parassiti: gangli aggiuntivi, simili a fibre grigie, che infiltravano carne e organi; guaine di filamenti che si torcevano; grappoli di nematodi simili a orribili tumori che non concedevano nemmeno la misericordia della morte. Adesso su di me avevo due crucimorfi: quello di Lenar Hoyt e il mio. Pregai di morire, anziché sopportarne un altro.
"Continuai a scendere. Le pareti pulsavano di calore, oltre che di luce, non so se causato dalla profondità o dall'ammasso di migliaia di crucimorfi. Finalmente percorsi l'ultima curva della scala, scesi l'ultimo gradino e mi trovai nel labirinto.
"Il labirinto. Si estendeva lontano, come avevo visto in innumerevoli olografie e una volta di persona: lisci tunnel a sezione quadrata di trenta metri di lato, scavati nella roccia di Hyperion più di tre quarti di milione di anni fa, che intersecavano il pianeta come catacombe progettate da un ingegnere folle. I labirinti si trovano su nove mondi, cinque nella Rete, gli altri, come quello di Hyperion, nella Periferia: sono tutti identici, scavati tutti nel medesimo periodo, e nessuno rivela indizi sul motivo della propria esistenza. Le leggende sui Costruttori di Labirinti abbondano, ma quei mitici ingegneri non hanno lasciato alcun manufatto, alcuna traccia dei loro metodi né del loro carattere alieno, e nessuna teoria offre una ragione logica per quello che è senz'altro uno dei più grandi progetti di ingegneria che la galassia abbia mai visto.
"Tutti i labirinti sono vuoti. Robot telecomandati hanno esplorato milioni di chilometri di gallerie tagliate nella roccia e, a eccezione dei punti in cui il tempo e i crolli hanno alterato le catacombe originali, i labirinti sono informi e vuoti.
"Ma non nel punto dove adesso ero io.
"Crucimorfi illuminavano una scena degna di Hieronymus Bosch, mentre fissavo il corridoio infinto, infinito ma non vuoto… no, non vuoto.
"Sulle prime pensai che ci fosse una folla di persone viventi, un fiume di teste e di spalle e di braccia, esteso per i chilometri che potevo vedere, una corrente di umanità interrotta a tratti da veicoli parcheggiati, tutti dello stesso colore rosso ruggine. Quando avanzai, accostandomi alla parete di umanità strettamente ammassata, a meno di venti metri da me, capii che si trattava di cadaveri. Decine, centinaia di migliaia di cadaveri umani, alcuni distesi scompostamente sul pavimento di pietra, alcuni schiacciati contro le pareti, ma per la maggior parte tenuti a galla dalle pressione di altri cadaveri, tanto strettamente erano ammassati in quel particolare tunnel del labirinto.
"C'era un sentiero: tagliava fra i cadaveri come se una falciatrice vi si fosse aperta la strada. Lo seguii… badando bene a non sfiorare un braccio proteso o una caviglia emaciata.
"I corpi erano umani, in molti casi ancora vestiti, mummificati da eoni trascorsi in quella cripta priva di batteri. Pelle e carne erano state conciate, stirate e strappate come stamigna marcia, fino a ricoprire solo ossa e spesso nemmeno quelle. I capelli restavano sotto forma di viticci di catrame polveroso, rigidi come fibroplastica verniciata. Le tenebre fissavano da sotto palpebre aperte, dai denti. Le vesti che un tempo erano certo state di una miriade di colori adesso erano marrone chiaro o grigie o nere, friabili come indumenti scolpiti in pietra sottile. Grumi di plastica fusa dal tempo, ai polsi e al collo, erano forse comlog o l'equivalente.
"I veicoli più grossi forse un tempo erano VEM, ma adesso erano cumuli di ruggine pura. Dopo un centinaio di metri, inciampai; piuttosto che cadere nel campo di cadaveri, mi aggrappai a un'alta macchina tutta curve e torrette annebbiate. La pila di ruggine crollò su se stessa.
"Vagai, senza il mio Virgilio, lungo il terribile sentiero eroso nella carne umana, domandandomi perché mi si mostrasse tutto questo, che cosa significasse. Dopo una camminata interminabile, barcollando fra mucchi di umanità buttata via, giunsi a un'intersezione; tutt'e tre i corridoi erano già pieni di corpi. Lo stretto sentiero continuava nel tunnel alla mia sinistra. Lo seguii.
"Dopo ore intere e forse più, mi fermai e mi sedetti su di uno stretto marciapiede di pietra che serpeggiava in mezzo a quell'orrore. Se in quel piccolo tratto di tunnel c'erano decine di migliaia di cadaveri, il labirinto di Hyperion ne conteneva certo dei miliardi. Di più. I nove mondi labirinto insieme senza dubbio erano una cripta per miliardi di miliardi.
"Non avevo idea del perché mi si mostrava questa Dachau finale dell'anima. Vicino al punto dove sedevo, il cadavere mummificato di un uomo riparava ancora con la curva del braccio nudo fino all'osso il cadavere di una donna. In grembo alla donna c'era un fagotto con capelli neri e corti. Distolsi lo sguardo e piansi.
"Come archeologo, avevo portato alla luce vittime di pena capitale, di incendio, di alluvione, di terremoto e di eruzione vulcanica. Simili scene di famiglia non mi erano nuove; erano la condizione essenziale della storia. Ma in qualche modo quella scena era molto più orribile. Forse a causa del numero, milioni di morti nel loro olocausto. Forse era la luminosità dei crucimorti che tappezzavano il tunnel come migliaia di scherzi blasfemi. Forse era il gemito triste del vento che soffiava attraverso infiniti corridoi di pietra.
"La mia vita e l'insegnamento e le sofferenze e le piccole vittorie e le innumerevoli sconfitte mi avevano portato lì… al di là della fede, della preoccupazione, della semplice sfida miltoniana. Provai l'impressione che quei corpi fossero lì da mezzo milione di anni o anche più, ma che le persone provenissero dal nostro tempo o, peggio ancora, dal nostro futuro. Nascosi fra le mani il viso e piansi.
"Non fui avvertito da fruscii né da un vero rumore, ma qualcosa, qualcosa, forse un movimento di aria… alzai gli occhi e lo Shrike era lì, a nemmeno due metri. Non sul sentiero, ma fra i corpi: una statua in onore dell'architetto di quel carnaio.
"Mi alzai. Non sarei rimasto seduto, né tantomeno inginocchiato, di fronte a quell'abominio.
"Lo Shrike si mosse verso di me, slittò più che camminare, scivolò come su rotaie prive di attrito. La luce color sangue dei crucimorfi si riversò sul carapace argento vivo, sull'eterno, impossibile sorriso… stalattiti e stalagmiti di acciaio.
"Non provai impulsi di violenza verso la creatura: solo tristezza e una terribile pietà. Non per lo Shrike, qualsiasi cosa fosse, ma per tutte le vittime che, da sole e non sostenute nemmeno dalla più fievole delle fedi, avevano dovuto affrontare quell'incarnazione del terrore nella notte.
"Per la prima volta notai che, da breve distanza, meno di un metro, intorno allo Shrike c'era un odore… un lezzo di olio rancido, di cuscinetti surriscaldati e di sangue secco. La fiamma nei suoi occhi pulsava in perfetta sintonia con l'alzarsi e l'abbassarsi della luminescenza dei crucimorfi.