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Eppure, ore prima, secoli prima, Sol Weintraub aveva offerto l'unica figlia a una creatura di morte.

Per anni la voce nei suoi sogni gli aveva ordinato di farlo. Per anni Sol si era rifiutato. Aveva acconsentito, infine, solo quando il tempo era terminato, quando ogni altra speranza era svanita, quando aveva capito che per tutti quegli anni la voce nei sogni suoi e di Sarai non era la voce di Dio né di chissà quale potere tenebroso alleato allo Shrike.

Era la voce della loro figlia.

Con improvvisa lucidità che trascendeva l'immediatezza del dolore e del travaglio, Sol Weintraub capì a un tratto perché Abramo avesse acconsentito a sacrificare Isacco, suo figlio, quando il Signore l'aveva ordinato.

Non era ubbidienza.

Non era nemmeno porre l'amore per Dio sopra l'amore per il figlio.

Abramo metteva alla prova Dio!

Rifiutando all'ultimo istante il sacrificio e fermando il coltello, Dio si era guadagnato il diritto, agli occhi di Abramo e al cuore della sua discendenza, di diventare il Dio di Abramo.

Nessuna posa di Abramo, nessuna finzione di compiacenza nel sacrificio del figlio, Sol rabbrividì al pensiero, sarebbero serviti a forgiare quel legame fra potere superiore e umanità. Certo Abramo sapeva in cuor suo che avrebbe ucciso il figlio. Certo la Divinità, qualsiasi forma avesse allora assunto, conosceva la determinazione di Abramo, sentiva il dolore e l'impegno a distruggere ciò che per lui era il bene più prezioso del mondo.

Abramo non andò a fare il sacrificio, ma a stabilire una volta per tutte se quello era un Dio degno di fede e di ubbidienza. Nessun'altra prova sarebbe andata bene.

Perché allora, Sol pensò, tenendosi aggrappato ai gradini di pietra mentre la Sfinge sembrava alzarsi e ricadere nei mari burrascosi del tempo, perché quella prova veniva ripetuta? Quale nuova, terribile rivelazione era a portata di mano dell'umanità?

Sol capì allora — dal poco che Brawne gli aveva detto, dalle storie che si erano scambiati durante il pellegrinaggio e dalle proprie rivelazioni personali delle ultime settimane — che il tentativo dell'Intelligenza Finale macchina, qualsiasi cosa fosse, di stanare l'entità Empatia mancante nella divinità umana era inutile. Sol non vedeva più sulla cresta della parete rocciosa l'albero di spine con i rami metallici e le moltitudini sofferenti, ma capiva ora con chiarezza che si trattava di una macchina organica come lo Shrike, di uno strumento per trasmettere sofferenza nell'universo, in modo che la parte-Dio umana fosse costretta a reagire, a mostrarsi.

Se Dio si evolveva, e Sol era sicuro che Dio si evolvesse, allora questa evoluzione era diretta verso l'empatia… verso un condiviso senso di sofferenza, anziché di potere e di dominio. Ma l'osceno albero scorto dai pellegrini, del quale era rimasto vittima il povero Martin Sileno, non era il modo per evocare il potere mancante.

Sol capì ora che la macchina-dio, non importa in quale forma, aveva acume sufficiente a riconoscere che l'empatia era una reazione al dolore altrui; ma la stessa IF era troppo stupida per rendersi conto che l'empatia, sia in termini umani, sia in termini dell'IF dell'umanità, era molto di più di questo. Empatia e amore erano inseparabili e inspiegabili. La macchina-IF non l'avrebbe mai capito… neppure quanto bastava a servirsene come esca per la parte dell'IF umana che nel remoto futuro si era stufata della guerra.

L'amore, questa cosa fra le più banali, il cliché più usato nelle motivazioni religiose, aveva maggior potere, capì Sol, della forza di coesione nucleare o dell'elettromagnetismo o della gravità. L'amore era queste forze, capì Sol. Il Vuoto Legante, l'impossibile cosa subquantica che trasportava dati da fotone a fotone, era, né più né meno, amore.

Ma poteva, l'amore… il semplice, banale amore… spiegare il cosiddetto principio antropico di fronte al quale gli scienziati avevano scosso collettivamente la testa per più di sette secoli… la quasi infinita stringa di coincidenze che aveva portato a un universo con il giusto numero di dimensioni, con i giusti valori elettronici, con le giuste regole gravitazionali, con la giusta età delle stelle, con le giuste prebiologie per creare i giusti virus perfetti che diventassero i giusti DNA… in breve, una serie di coincidenze così assurde in precisione ed esattezza da sfidare ogni logica, da sfidare la comprensione, da sfidare perfino l'interpretazione religiosa? Amore?

Per sette secoli, l'esistenza delle Teorie della Grande Unificazione e della fisica iperstringa post-quantica e della comprensione offerta dal TecnoNucleo dell'universo come autocontenuto e infinito, senza anomalie di Big Bang né corrispondente punto conclusivo, aveva quasi completamente eliminato qualsiasi ruolo di Dio, primitivamente antropomorfo o sofisticatamente post-einsteiniano, anche in veste di custode o di legislatore pre-creazione. Il moderno universo, come macchina e uomo erano giunti a capirlo, non aveva bisogno di Creatore; in realtà, non comportava un Creatore. Le sue regole ammettevano ben pochi armeggiamenti e nessuna revisione importante. Non era iniziato e non sarebbe terminato, al di là di cicli di espansione e di contrazione regolari e autoregolati come le stagioni sulla Vecchia Terra. E non c'era posto per l'amore.

A quanto pareva, Abramo si era offerto di uccidere il figlio per mettere alla prova un fantasma.

A quanto pareva, Sol aveva portato la figlia morente, attraverso centinaia di anni-luce e innumerevoli fatiche, in risposta a niente.

Ma ora, mentre la Sfinge incombeva su di lui e la prima traccia dell'alba schiariva il cielo di Hyperion, Sol capì di avere risposto a una forza più basilare e persuasiva del terrore per lo Shrike o del dominio del dolore. Se aveva ragione — e non lo sapeva, ma lo sentiva — allora l'amore era collegato alla struttura dell'universo, con la stessa solidità della forza gravitazionale e del principio di materia e antimateria. C'era spazio per una sorta di Dio, non nella rete fra le pareti, non nelle fessure di anomalia del selciato, non in un luogo al di là della sfera delle cose… ma nella trama e nell'ordito stessi delle cose. Un Dio che si evolveva come si evolveva l'universo. Che apprendeva come apprendevano le parti in grado di imparare dell'universo. Che amava come l'umanità amava.

Sol si alzò sulle ginocchia e poi in piedi. La bufera delle maree del tempo sembrava essersi calmata un poco e lui pensò di poter fare il centesimo tentativo di entrare nella tomba.

Una vivida luce usciva ancora dal punto dove lo Shrike era emerso, aveva preso la figlia di Sol ed era svanito. Ma ora le stelle scomparivano mentre il cielo si schiariva nel mattino.

Sol salì gli scalini.

Ricordò la casa nel Mondo di Barnard e la volta in cui Rachel, a dieci anni, si era arrampicata sull'olmo più alto del paese ed era caduta quando mancavano soli cinque metri alla cima. Sol si era precipitato al centro medico, aveva trovato la figlia che galleggiava nel liquido nutriente di ricupero, con un polmone perforato, una gamba e alcune costole rotte, la mascella fratturata e innumerevoli tagli ed escoriazioni. Rachel gli aveva sorriso, aveva alzato il pollice e aveva detto, nonostante i ferri alla mascella: «La prossima volta ci riesco!»

Quella notte Sol e Sarai erano rimasti al centro medico, mentre Rachel dormiva. Avevano aspettato fino al mattino. Per tutta la notte Sol le aveva stretto la mano.

Adesso aspettava.

Le maree del tempo provenienti dall'ingresso della Sfinge continuarono a respingere Sol come vento insistente, ma lui le affrontò come roccia inamovibile e rimase lì, a cinque metri, in attesa, fissando a occhi socchiusi il bagliore.

Alzò lo sguardo, ma non si mosse, quando, prima dell'alba, la fiamma di fusione di un'astronave in discesa tagliò il cielo. Girò la testa a guardare, ma non si mosse, quando la nave atterrò e ne uscirono tre persone. Lanciò un'occhiata, ma non tornò indietro, quando, dall'interno della valle, udì altri rumori e grida, quando vide una figura ben nota trasportarne a spalla un'altra e muoversi verso di lui passando davanti alla Tomba di Giada.

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