Su Tau Ceti Centro, sede del potere e della ricchezza e degli affari e del governo, i superstiti affamati abbandonarono le pericolose guglie e le inutili città e gli inservibili habitat orbitali e cercarono qualcuno a cui dare la colpa. Qualcuno da punire.
Non fu necessario cercare lontano.
Il generale Van Zeidt si trovava nella Casa del Governo, quando i portali smisero di esistere; ora comandava i duecento marines e i sessantotto agenti di sicurezza lasciati a guardia del complesso. L'ex PFE Meina Gladstone comandava ancora i sei Pretoriani che Kolchev le aveva lasciato, quando lui e gli altri senatori più elevati in grado erano partiti nella prima e ultima navetta di evacuazione della FORCE che fosse riuscita a teleportarsi. Da qualche parte la folla inferocita si era procurata missili e laser antispazio; nessuno degli altri tremila impiegati e profughi nella Casa del Governo se ne sarebbe andato, finché l'assedio non fosse stato tolto o gli schermi di protezione non avessero ceduto.
Gladstone si fermò al posto di osservazione avanzato e guardò il massacro. La folla aveva distrutto gran parte del Parco dei Cervi e dei giardini all'italiana, prima di essere bloccata dalle ultime linee di interdizione e dai campi di contenimento. Adesso almeno tre milioni di persone in preda al panico erano ammassati contro queste barriere e la folla ingrossava di minuto in minuto.
— Potete spostare i campi indietro di cinquanta metri e riformarli prima che la folla invada il terreno? — domandò Gladstone al generale. Il fumo delle città in fiamme a ovest riempiva il cielo. A migliaia, uomini e donne erano stati schiacciati contro i campi di contenimento dalla spinta della folla, al punto che i due metri inferiori della parete scintillante sembravano cosparsi di marmellata di fragole. Altre decine di migliaia premevano maggiormente contro lo schermo interno, nonostante il dolore neurale e osseo causato dal campo di interdizione.
— Possiamo farlo, signora — rispose Van Zeidt. — Ma per quale motivo?
— Esco a parlare alla folla. — Gladstone parve davvero stanca.
Il marine la guardò, convinto che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto. — Signora, fra un mese saranno disposti ad ascoltare lei… o uno di noi… alla radio o alla TVE. Fra un anno, forse due, dopo che l'ordine sia stato ristabilito e il razionamento abbia avuto successo, potrebbero anche essere pronti a dimenticare. Ma occorrerà una generazione, prima che capiscano sul serio quel che lei ha fatto… che lei li ha salvati… che ci ha salvati tutti.
— Voglio parlare a quelle persone — disse Meina Gladstone. — Ho una cosa da dare loro.
Van Zeidt scosse la testa. Gli ufficiali della FORCE che dalle feritoie del bunker fissavano la folla ora guardarono Gladstone, con la stessa incredulità e lo stesso orrore.
— Devo sentire il PFE Kolchev — disse il generale Van Zeidt.
— No — replicò Meina Gladstone, con voce stanca. — Lui governa un impero che non esiste più. Io governo ancora il mondo che ho distrutto. — Fece segno ai Pretoriani, che estrassero la neuroverga da sotto la veste a strisce arancione e nero.
Nessuno degli ufficiali della FORCE si mosse. Il generale Van Zeidt disse: — Meina, la prossima nave di evacuazione ce la farà.
Gladstone annuì, come distratta. — Il giardino interno, direi. Per qualche minuto la folla non saprà che fare. La ritrazione dei campi esterni la prenderà alla sprovvista. — Si guardò intorno, come per assicurarsi di non avere dimenticato niente; poi tese la mano a Van Zeidt. — Addio, Mark — disse. — E grazie. La prego, si prenda cura del mio popolo.
Il generale Van Zeidt le strinse la mano; la guardò aggiustarsi la fascia, toccare con aria assente il bracciale comlog quasi fosse un portafortuna e uscire dal bunker, seguita da quattro Pretoriani. Il gruppetto attraversò i giardini calpestati e si diresse lentamente verso i campi di contenimento. Al di là della barriera, la folla parve reagire come un singolo organismo privo di intelligenza e si gettò contro il campo di interdizione urlando come impazzita.
Gladstone si girò, alzò la mano quasi in un saluto e mandò indietro i Pretoriani. I quattro si affrettarono ad allontanarsi sull'erba calpestata.
— Proceda — disse il più anziano dei Pretoriani rimasti nel bunker. Indicò il telecomando del campo di contenimento.
— Vaffanculo — rispose chiaro e tondo il generale Van Zeidt. Nessuno si sarebbe avvicinato al telecomando, finché lui fosse stato vivo.
Van Zeidt aveva dimenticato che Gladstone aveva ancora accesso ai codici e ai collegamenti tattici a raggio compatto. Vide la donna alzare il comlog, ma reagì troppo lentamente. Le luci spia del telecomando brillarono, rosse e poi verdi; i campi esterni si spensero e si riformarono cinquanta metri più indietro; per un secondo Meina Gladstone rimase da sola, con niente fra sé e la folla di milioni di individui, tranne pochi metri di erba e innumerevoli cadaveri che il ritiro delle pareti schermanti aveva abbandonato di colpo alla forza di gravità.
Gladstone alzò le braccia come ad abbracciare la folla. Il silenzio e la mancanza di movimento si protrassero per tre secondi che parvero eterni, poi la marmaglia ruggì con la voce di una belva immane e migliaia di pazzi si lanciarono avanti, con bastoni e pietre e coltelli e pezzi di bottiglia.
Per un momento parve a Van Zeidt che Gladstone stesse ferma come una roccia incrollabile sotto l'onda di folla inferocita; il generale vide l'abito nero e la fascia colorata, vide la donna restare ben dritta, con le braccia ancora alzate; ma poi altre centinaia di esagitati si lanciarono avanti, la folla si chiuse e Gladstone fu perduta.
I Pretoriani abbassarono le armi e furono immediatamente messi agli arresti dai marines di guardia.
— Rendere opachi i campi di contenimento — ordinò Van Zeidt. — Comunicare alle navette di atterrare nel giardino interno a intervalli di cinque minuti. Sbrigarsi!
Girò le spalle alla scena.
— Sant'Iddio — disse Theo Lane, mentre rapporti frammentari continuavano ad arrivare via astrotel. Le raffiche della durata di millisecondi erano talmente numerose che il computer non riusciva a separarle. Il risultato era un mélange di follia.
— Facci rivedere la distruzione della sfera di contenimento — ordinò il Console.
— Sissignore — rispose la nave; interruppe i messaggi astrotel per mostrare di nuovo un improvviso scoppio di luce bianchissima, seguito da una breve fioritura di detriti e dall'improvviso collasso della sfera di anomalia che inghiottiva se stessa e ogni cosa in un raggio di seimila chilometri. Alcuni strumenti mostrarono l'effetto delle maree gravitazionali: alla distanza cui si trovava la nave del Console non era difficile tenerle a bada, ma scatenarono la devastazione fra le navi dell'Egemonia e degli Ouster ancora impegnate in battaglia nelle vicinanze di Hyperion.
— Va bene così — disse il Console. Il flusso di rapporti astrotel riprese.
— Non c'è dubbio? — domandò Arundez.
— No. Hyperion è di nuovo un mondo della Periferia. Ma stavolta non c'è una Rete di cui essere la Periferia.
— Incredibile — disse Theo Lane. L'ex governatore generale beveva scotch: l'unica volta che il Console l'aveva visto indulgere agli alcolici. Theo se ne versò altre quattro dita. — La Rete… sparita. Cinquecento anni di espansione spazzati via.
— Non spazzati via — disse il Console. Posò sul tavolo il bicchiere, ancora mezzo pieno. — I mondi rimangono. Le civiltà saranno lontane l'una dall'altra, ma abbiamo ancora il motore Hawking. L'unico progresso tecnologico che abbiamo ottenuto da soli, non preso in affitto dal Nucleo.
Melio Arundez si sporse in avanti, a mani giunte come in preghiera. — Possibile che il Nucleo sia davvero scomparso? Distrutto?
Il Console ascoltò un momento la confusione di voci, di grida, di implorazioni, di rapporti militari e di richieste di aiuto che proveniva dalle bande audio dell'astrotel. — Distrutto forse no — disse. — Ma tagliato fuori, isolato.