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E poi Rajasinghe, che aveva sempre tenuto in gran conto il proprio autocontrollo anche nelle situazioni più drammatiche e inattese, uscì in un involontario grido d'orrore. Vannevar Morgan, distrattamente, era indietreggiato e precipitato, nel vuoto.

6

L'artista

 — Portatemi il persiano — disse Kalidas appena ebbe ripreso fiato. La salita dagli affreschi al Trono a Elefante non era difficile, ed era perfettamente sicura ora che la scalinata che scendeva lungo la roccia era delimitata da pareti. Però era faticosa. Kalidas si chiedeva per quanti anni ancora sarebbe riuscito a superare quella distanza senza farsi aiutare da qualcuno. Certo, potevano sorreggerlo gli schiavi, ma non si addiceva alla dignità d'un re. Ed era intollerabile che altri occhi, oltre ai suoi, potessero ammirare le cento dee e le cento schiave altrettanto belle che formavano il seguito della sua corte celeste.

Da quel momento in poi, notte e giorno, ci sarebbe sempre stata una guardia all'ingresso della scalinata, l'unica via che portava dal palazzo al paradiso personale creato da Kalidas. Dopo dieci anni di fatiche, il suo sogno era finalmente realizzato. Anche se quei monaci gelosi chiusi in cima alla montagna sostenevano il contrario, lui era ormai un dio.

Nonostante gli anni trascorsi sotto il sole di Taprobane, la pelle di Firdaz era ancora bianca come quella di un romano; e quel giorno, quando s'inchinò davanti al re, pareva ancor più pallido, e irrequieto. Kalidas lo studiò attentamente, poi uscì in uno dei suoi rari sorrisi d'approvazione.

— Hai lavorato bene, persiano — gli disse. — Esiste al mondo un altro artista che poteva fare meglio?

L'orgoglio combatté con la cautela, prima che Firdaz gli desse una risposta esitante.

— Nessuno che io conosca, Maestà.

— E ti ho pagato bene?

— Sono perfettamente soddisfatto.

Quella risposta, pensò Kalidas, era tutt'altro che esatta: il persiano aveva continuato a chiedergli altro denaro, altri aiutanti, materiali costosi che si potevano trovare solo in terre lontane. Ma non si poteva pretendere che un artista s'intendesse d'economia, o che sapesse che il tesoro reale era stato prosciugato dal costo spaventoso del palazzo e di quello che gli stava attorno.

— E ora che il tuo lavoro qui è finito, cosa desideri?

— Vorrei che vostra Maestà mi concedesse il permesso di tornare a Isfahan, per rivedere la mia gente.

Era la risposta che Kalidas si aspettava, e rimpiangeva sinceramente la decisione che doveva prendere. Ma lungo l'interminabile percorso che conduceva in Persia si trovavano troppi potenti, e alle loro mani avide non sarebbe sfuggito il sublime artista di Yakkagala. E le dee dipinte sulla parete occidentale dovevano restare per sempre senza rivali.

— C'è un problema — disse con decisione, e Firdaz si fece ancora più pallido, la sua schiena si piegò a quelle parole. Un re non era tenuto a spiegare niente, ma in quel momento erano due artisti che si stavano parlando. — Tu mi hai aiutato a diventare dio. La notizia è già giunta in molte terre. Se tu abbandoni la mia protezione, altri ti chiederanno di fare la stessa cosa.

Per un attimo l'artista restò in silenzio. L'unico rumore era il ruggito del vento, che smetteva di rado di lamentarsi quando incontrava quell'ostacolo imprevisto lungo il cammino. Poi Firdaz disse, così piano che Kalidas lo udì appena: — Allora mi proibite di andarmene?

— Puoi andartene, e con una ricchezza sufficiente per il resto della tua vita. Ma solamente alla condizione che tu non faccia alcun lavoro per un altro principe.

— Sono pronto a fare questa promessa — rispose Firdaz con una fretta quasi sconveniente.

Kalidas scosse amaramente la testa. — Ho imparato a non fidarmi della parola degli artisti — disse — specialmente quando non si trovano più in mio potere. Per cui dovrò costringerti a rispettare la promessa.

Con stupore di Kalidas, Firdaz non sembrava più così incerto. Era come se avesse preso una grande decisione e si sentisse finalmente a suo agio.

— Capisco — disse, levandosi in tutta la sua statura. Poi, deliberatamente, girò la schiena al re, come se il suo signore non esistesse più, e si mise a fissare il sole accecante.

Kalidas sapeva che il sole era il dio dei persiani, e le parole che Firdaz stava mormorando dovevano essere una preghiera nella sua lingua. Esistevano anche dèi peggiori da venerare, e l'artista continuava a fissare il disco abbagliante, quasi sapesse che era l'ultima cosa che avrebbe mai visto…

— Prendetelo! — urlò il re.

Le guardie scattarono subito in avanti, ma giunsero troppo tardi. Per quanto accecato dalla luce del sole, Firdaz si mosse con precisione. In tre passi raggiunse il parapetto e si lanciò fuori. Non disse niente mentre precipitava, in un lungo arco, verso i giardini che per tanti anni aveva progettato, e non ci fu nessuna eco quando l'architetto di Yakkagala raggiunse le fondamenta del suo capolavoro.

Kalidas restò addolorato per molti giorni, ma il suo dolore si mutò in collera quando venne intercettata l'ultima lettera del persiano a Isfahan. Qualcuno aveva avvertito Firdaz che a lavoro compiuto lo avrebbero accecato; e si trattava di una menzogna sciagura. Il re non scoprì mai la fonte di quella voce, anche se non pochi uomini morirono lentamente prima di provare la loro innocenza. Lo rattristava pensare che il persiano avesse creduto a una tale bugia; avrebbe dovuto capire che un altro artista non lo avrebbe mai privato del dono della vista.

Perché Kalidas non era un uomo crudele, e nemmeno ingrato. Avrebbe ricoperto Firdaz d'oro, o almeno d'argento, e lo avrebbe fatto partire con molti servi che si sarebbero presi cura di lui per il resto dei suoi giorni. Non gli sarebbe successo mai più di usare le mani; e dopo un po' non ne avrebbe più sentito la mancanza.

7

Il palazzo del Dio-Re

 Vannevar Morgan non aveva dormito bene, il che era terribilmente insolito. Era molto orgoglioso del suo grado d'autocoscienza, della capacità di comprendere i propri impulsi ed emozioni. Se non riusciva a dormire, voleva scoprire perché.

Gradualmente, mentre osservava le primissime luci dell'alba riflettersi sul soffitto della camera e udiva le voci scampanellanti di uccelli sconosciuti, cominciò a riordinare i pensieri. Non sarebbe mai diventato ingegnere capo alla Terran Construction se non avesse pianificato la propria vita in maniera da evitare sorprese. Nessuno può essere immune ai colpi della fortuna e del fato, ma lui aveva compiuto tutti i passi necessari per salvaguardare la sua carriera e, soprattutto, la sua reputazione. Il suo futuro era a prova di bomba nei limiti delle sue possibilità. Se anche fosse morto all'improvviso, i programmi inseriti nella memoria del suo computer avrebbero protetto oltre la tomba il sogno che amava tanto.

Fino a ieri non aveva mai sentito parlare di Yakkagala; anzi, fino a poche settimane prima era solo vagamente conscio dell'esistenza di Taprobane, e poi la logica della sua ricerca lo aveva inesorabilmente indirizzato a quell'isola. A quell'ora avrebbe già dovuto essere ripartito, e invece la sua missione non era ancora iniziata. Quel lieve spostamento di programmi non lo preoccupava; quello che lo tormentava sul serio era la sensazione di essere mosso da forze al di là della sua comprensione. Eppure quel senso di meraviglia aveva echi familiari. Lo aveva già sperimentato quando, da bambino, aveva fatto volare l'aquilone nel parco Kiribilli, a fianco dei monoliti di granito che un tempo erano i piloni del ponte del porto di Sydney, demolito da anni.

Quelle torri gemelle avevano dominato la sua infanzia e controllato il suo destino. Forse sarebbe diventato comunque ingegnere; ma il fatto di essere nato lì lo aveva spinto a costruire ponti. E così lui era stato il primo uomo a passare dal Marocco alla Spagna, sospeso a tre chilometri sulle acque agitate del Mediterraneo; senza nemmeno sognare, in quel momento di trionfo, la sua sfida ancora più stupenda che lo attendeva.

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