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La notte prima di Vesak

Dopo ventisette secoli, quello era ancora il giorno più sacro del calendario di Taprobane. Alla luna piena di maggio, secondo la leggenda, il Buddha era nato, aveva ricevuto l'illuminazione, ed era morto. Anche se per molta gente Vesak ormai non significava molto di più dell'altra grande festa annuale, il Natale, era sempre un'occasione di meditazione e tranquillità.

Per molti anni il Controllo Monsoni aveva fatto sì che non piovesse, la notte prima e dopo Vesak. E, quasi per altrettanti anni, Rajasinghe si era recato alla Città Reale due giorni prima della luna piena, in un pellegrinaggio che ogni anno rigenerava il suo spirito. Non vi andava il giorno di Vesak: Ranapur era troppo affollata di visitatori, qualcuno lo avrebbe senz'altro riconosciuto, disturbato la sua solitudine.

Solo l'occhio più acuto poteva notare che l'enorme luna gialla sospesa sulle cupole a campana degli antichi "dagoba" non era ancora un cerchio perfetto. Emanava una luminosità tanto intensa che nel cielo senza nubi erano visibili solo poche stelle e satelliti, i più brillanti. E non c'era un soffio di vento.

Due volte, si diceva, Kalidas si era fermato lungo quel percorso quando aveva lasciato per sempre Ranapur. La prima sosta fu alla tomba di Hanuman, l'amato compagno della sua infanzia; e la seconda al Tempio del Buddha Morente. Rajasinghe si era chiesto spesso quale sollievo ne avesse tratto il re maledetto, forse in quello stesso punto, perché era il luogo migliore da cui osservare l'immensa statua scolpita nella roccia solida. Le proporzioni di quella figura reclinata erano talmente perfette che bisognava arrivarle davanti, prima di afferrare le reali dimensioni. Da lontano era impossibile accorgersi che il cuscino sotto la testa di Buddha era, da solo, più alto d'un uomo.

Rajasinghe aveva visto molto del mondo, ma non conosceva un altro luogo così pieno di pace. A volte pensava di poter restare seduto lì per l'eternità, sotto la luna gialla, del tutto dimentico dei problemi e della confusione dell'esistenza. Non aveva mai cercato di analizzare troppo a fondo la magia del Tempio, per timore di distruggerla, ma alcune delle sue componenti erano piuttosto chiare. Lo stesso atteggiamento dell'Illuminato, sereno ad occhi chiusi dopo una vita lunga e nobile, irradiava serenità. Le pieghe morbide della sua tunica erano straordinariamente dolci e riposanti da contemplare; sembravano fluire dalla roccia, formare onde di pietra immobile. E, come le onde del mare, il ritmo naturale delle loro curve faceva appello a istinti di cui la parte razionale della mente non sapeva niente.

In momenti eterni come quello, solo col Buddha e la luna quasi piena, Rajasinghe sentiva di riuscire finalmente a comprendere il significato del Nirvana, quel particolare stato che può essere definito solo attraverso negazioni. Emozioni come l'ira, il desiderio, la cupidigia non possedevano più alcun potere; anzi, erano a stento concepibili. Persino il senso dell'identità personale sembrava sul punto di scomparire, come la nebbia davanti al sole del mattino.

Non poteva durare, naturalmente. Adesso avvertiva il ronzio degli insetti, il lontano abbaiare di cani, il freddo ruvido della pietra su cui sedeva. La tranquillità non è uno stato che si possa protrarre a lungo. Con un sospiro Rajasinghe si alzò e s'incamminò verso la macchina, parcheggiata un centinaio di metri all'esterno del terreno del tempio.

Stava salendo in auto quando notò la macchiolina bianca, così netta da sembrare dipinta in cielo, che si alzava a ovest al di sopra degli alberi. Era la nube più strana che Rajasinghe avesse mai visto: un ellissoide perfettamente simmetrico, dai contorni così precisi che sembrava quasi solido. Si chiese se qualcuno stesse volando in dirigibile nei cieli di Taprobane; ma non vedeva code stabilizzatrici, e non udiva il rombo dei motori.

Poi, per un brevissimo momento, fu cullato da un fantasia ancor più sfrenata. "Erano arrivati gli Stellisolani…"

Ma, ovviamente, era assurdo. Se anche fossero riusciti a correre più veloci dei loro segnali radio, era impossibile che avessero traversato tutto il sistema solare (e fossero scesi sui cieli della Terra!) senza far scattare tutte le postazioni radar esistenti. La notizia sarebbe già stata diffusa da ore.

Sorpreso, Rajasinghe scoprì di essere piuttosto deluso. E ora, mentre l'apparizione si faceva più vicina, scoprì che era senz'altro una nuvola, perché i contorni erano leggermente sfilacciati. Viaggiava a una velocità impressionante, come trasportata da una tempesta personale di cui non c'era ancora traccia a livello del suolo.

E così gli scienziati del Controllo Monsoni si davano di nuovo da fare, mettevano alla prova la padronanza dei venti. "Cos'altro" si chiese Rajasinghe "escogiteranno la prossima volta?"

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Stazione Ashoka

Come sembrava piccola l'isola da quell'altitudine! Trentaseimila chilometri più in basso, a cavallo dell'equatore, Taprobane non pareva molto più grande della luna. Il suo intero territorio sembrava un bersaglio troppo minuscolo per riuscire a colpirlo; eppure lui mirava a una zona al centro dell'isola delle dimensioni di un campo da tennis.

Nemmeno ora Morgan era completamente sicuro delle proprie motivazioni. Per quella dimostrazione avrebbe anche potuto servirsi della Stazione Kinte e colpire il Kilimanjaro o il Monte Kenya. Il fatto che Kinte si trovasse in uno dei punti più instabili di tutta l'orbita stazionaria, e che dovesse continuamente manovrare per restare sopra l'Africa Centrale, non avrebbe contato molto nei pochi giorni dell'esperimento. Per un po' si era lasciato tentare dall'idea di scegliere come bersaglio Chimborazo; gli americani si erano persino offerti, nonostante la spesa non indifferente, di portare la Stazione Colombo su quell'esatta longitudine. Ma alla fine, a dispetto di quelle proposte, era tornato all'obiettivo iniziale: Sri Kanda.

Per Morgan era una fortuna che, in quell'epoca di decisioni prese con l'aiuto del computer, anche una sentenza della Corte Mondiale si potesse ottenere nel giro di qualche settimana. Il "vihara", ovviamente, aveva protestato. Morgan aveva ribattuto che un breve esperimento scientifico, condotto su un terreno all'esterno dei possedimenti del tempio e che non avrebbe creato rumori, inquinamento, o inconvenienti d'altro tipo, non poteva costituire un torto. Se gli avessero impedito di procedere, tutto il suo lavoro sarebbe stato in pericolo, lui non avrebbe avuto modo di controllare i calcoli, e un progetto di vitale importanza per la Repubblica di Marte avrebbe ricevuto un duro colpo.

Erano argomenti molto plausibili, e Morgan stesso li aveva ritenuti praticamente validi. Anche i giudici, cinque contro due. Per quanto la Corte Mondiale non dovesse lasciarsi influenzare da questioni del genere, l'accenno ai litigiosi marziani era stata una mossa abile. La Repubblica Marziana aveva già in ballo tre cause molto complesse, e la Corte cominciava a essere stanca di stabilire precedenti nella legislazione interplanetaria.

Ma Morgan sapeva, o almeno lo sapeva la parte freddamente analitica del suo cervello, che quell'azione non gli era stata imposta solo dalla logica. Non era uomo da accettare di buon grado le sconfitte; un gesto di sfida gli procurava una certa soddisfazione. Eppure, a un livello ancora più profondo, rifiutava quel motivo sciocco: un capriccio del genere non era degno di lui. In realtà stava ricostruendo la fiducia in se stesso, voleva affermare ancora una volta la sua fede nel successo finale. Senza sapere come, o quando, stava annunciando al mondo e, soprattutto, a quei monaci testardi chiusi fra mura antiche: "Ritornerò".

La Stazione Ashoka controllava praticamente tutta la meteorologia, le comunicazioni, la supervisione ambientale e il traffico spaziale nella regione del Catai indù. Se avesse smesso di funzionare, un miliardo di vite si sarebbero trovate in pericolo, e, se non avesse ricominciato a operare, per loro sarebbe stata la morte sicura. Era logico che Ashoka possedeva due sub-satelliti completamente indipendenti, Bhaba e Sarabhai, lontani un centinaio di chilometri. Se anche una catastrofe inimmaginabile avesse distrutto tutte e tre le stazioni, Kinte e Imhotep a ovest, o Confucio a est, erano in grado di sostituirle in una situazione d'emergenza. La razza umana aveva imparato, da lezioni durissime, a non mettere tutte le uova nello stesso paniere.

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