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Di tanto in tanto si riscontrava qualche indizio rivelatore, ad esempio l'uso errato di parole ambigue e l'assenza di contenuti emotivi nel dialogo. Il che era più che logico; i computer terrestri più complessi potevano, se necessario, riprodurre le emozioni dei loro costruttori; ma i sentimenti e i desideri di Stellaplano erano presumibilmente quelli di una razza del tutto aliena, e quindi ampiamente incomprensibili all'uomo.

E, ovviamente, viceversa. Stellaplano riusciva a capire con precisione e completezza assoluta cosa significasse: "La somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull'ipotenusa". Ma non riusciva ad avere la più pallida idea di cosa passasse per la mente di Keats quando aveva scritto:

"Incantate e magiche finestre, aperte sulla schiuma

di mari perigliosi, in terre fatate e abbandonate…".

E ancora meno:

"Debbo paragonarti a un giorno d'estate?

Tu sei più dolce e più mite…"

A ogni modo, nella speranza di correggere quell'imperfezione, a Stellaplano vennero trasmesse anche migliaia di ore di musica, letteratura e scene di vita terrestre, umana e no. Tutti furono d'accordo che in quel campo bisognava esercitare una certa censura. Nonostante fosse assai difficile negare la propensione dell'uomo per la violenza e la guerra (L'"Encyclopaedia" era già stata trasmessa), Stellaplano ne ricevette solo pochi esempi accuratamente selezionati. E, finché Stellaplano rimase all'interno del nostro sistema, il tono generale delle trasmissioni video fu insolitamente tranquillo.

Per secoli, forse fino al momento in cui la nave aliena avesse raggiunto l'obiettivo successivo, i filosofi avrebbero discusso "a quale profondità" Stellaplano aveva compreso le faccende e i problemi umani. Ma su un punto nessuno avanzò obiezioni serie. I cento giorni del suo passaggio nel sistema solare avevano definitivamente mutato i punti di vista dell'umanità circa l'universo, le sue origini, e il posto in esso occupato dalla nostra razza. La civiltà umana non poteva più essere la stessa, dopo la comparsa di Stellaplano.

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Bodhidharma

Quando la porta massiccia, scolpita da complesse rappresentazioni del loto, si chiuse dolcemente alle sue spalle, a Morgan parve di essere entrato in un altro mondo. Non era la prima volta che si trovava su un terreno un tempo consacrato a una grande religione; aveva visto Nôtre Dame, Santa Sofia, Stonehenge, il Partenone, Karnak, la cattedrale di San Paolo, e almeno un'altra dozzina di importanti templi e cattedrali. Ma li aveva considerati tutti come reliquie mummificate del passato, splendidi esempi di arte e ingegneria, però privi di significato per il mondo contemporaneo. Le fedi che li aveva creati e fatti esistere erano scomparse nell'oblio, anche se qualcuna era sopravvissuta fino al ventiduesimo secolo.

Ma lì sembrava che il tempo si fosse fermato. Gli uragani della storia avevano solo sfiorato quella sperduta cittadella della fede, lasciandola intatta. Come facevano da tremila anni, i monaci pregavano ancora, e meditavano, e osservavano l'alba.

Mentre camminava sul selciato logoro del cortile, consumato dai piedi di innumerevoli pellegrini, Morgan provò un'indecisione improvvisa e assolutamente insolita. Nel nome del progresso stava tentando di distruggere qualcosa d'antico e di nobile, qualcosa che non avrebbe mai capito in pieno.

L'apparizione della grande campana di bronzo, chiusa in un campanile che partiva dalla parete del monastero, lo bloccò. La sua mente d'ingegnere ne aveva immediatamente stimato il peso a non meno di cinque tonnellate, ed era evidente che era molto antica. Come diavolo…?

Il monaco notò la sua curiosità e gli rivolse un sorriso comprensivo.

— Ha duemila anni — disse. — È un dono di Kalidas il Maledetto, che ci è sembrato opportuno non rifiutare. Secondo la leggenda sono occorsi dieci anni per farla salire lungo la montagna… e le vite di cento uomini.

— Quando viene usata? — chiese Morgan, dopo aver digerito l'informazione.

— A causa della sua origine nefasta viene suonata solo in tempi di disastro. Io non l'ho mài sentita, così come non l'ha udita nessuno uomo oggi vivente. Ha suonato una volta, senza aiuti umani, durante il grande terremoto del duemiladiciassette. E la volta prima suonò nel millecinquecentoventidue, quando gli invasori iberici bruciarono il Tempio del Dente e s'impossessarono della Sacra Reliquia.

— Allora, dopo tanti sforzi, non è mai stata usata?

— Forse una dozzina di volte negli ultimi duemila anni. Sulla campana grava ancora la maledizione di Kalidas.

"Sarà una buona politica religiosa" non poté impedirsi di pensare Morgan "ma da un punto di vista economico non ci siamo." E, irriverente, si chiese quanti monaci avessero ceduto alla tentazione di dare un colpetto alla campana, magari minimo, solo per udire il timbro sconosciuto della sua voce proibita…

Oltrepassarono un masso enorme. Più avanti, una breve scalinata conduceva a un padiglione dorato. Erano giunti in cima alla montagna. Sapeva già cosa doveva contenere il reliquiario, ma il monaco lo illuminò di nuovo.

— L'impronta del piede — disse. — I musulmani credevano che fosse l'impronta d'Adamo, fermatosi qui dopo essere stato cacciato dal paradiso terrestre. Gli indù l'attribuivano a Shiva o Saman. Ma per i buddisti, ovviamente, era l'impronta dell'Illuminato.

— Vedo che usate il passato — disse Morgan, in un tono scrupolosamente neutro. — Adesso cosa si crede?

La faccia del monaco non mostrò la minima emozione. — Il Buddha era un uomo, come voi e me. L'impronta nella roccia, e la roccia è "molto" dura, è lunga due metri.

Col che la questione sembrò chiudersi. Morgan non fece altre domande mentre percorrevano un breve chiostro che terminava su una porta aperta. Il monaco bussò ma non attese risposta: gli fece subito cenno d'entrare.

Morgan si aspettava quasi di trovare il Mahanayake Thero seduto a gambe incrociate su uno stuoino, probabilmente circondato dall'incenso e da monaci che cantavano. In effetti c'era un debole sentore d'incenso in quell'aria gelida, ma il Supremo Reggente del "Wihara" di Sri Kanda sedeva dietro una scrivania perfettamente normale, dotata di un terminale standard di computer. L'unico tocco insolito nella stanza era la testa del Buddha, un po' più grande delle dimensioni naturali, posta su uno zoccolo in un angolo. Morgan non riuscì a capire se era vera o se si trattava solo di una proiezione.

Nonostante l'ambiente convenzionale, era assai improbabile che il rettore del monastero venisse scambiato per un normale uomo d'affari. A parte l'inevitabile tunica gialla, il Mahanayake Thero possedeva altre due caratteristiche che, a quell'epoca, erano estremamente rare. Era completamente calvo e portava gli occhiali.

Entrambe le cose, decise Morgan, erano frutto d'una scelta precisa. Visto che era tanto facile curare la calvizie, quel cranio lucido e immacolato doveva essere stato rasato o depilato. E non ricordava nemmeno da quanto tempo non vedeva più occhiali, se non in documentari o opere a sfondo storico.

La combinazione era affascinante, e sconcertante. Morgan trovò praticamente impossibile indovinare l'età del Mahanayake Thero: poteva avere dai quaranta agli ottanta anni ben portati. E quelle lenti, per quanto trasparenti, in qualche modo celavano pensieri ed emozioni.

— Ayu bowan, dottor Morgan — disse il monaco, indicando all'ospite l'unica poltrona vuota. — Questo è il mio segretario, il Venerabile Parakarma. Spero non vi dispiacerà se prende appunti.

— Certo che no — rispose Morgan, piegando la testa verso l'altro occupante della piccola stanza. Notò che il monaco più giovane, aveva i capelli lunghi e una barba immensa; probabilmente farsi rasare non era obbligatorio.

— E così, dottor Morgan — continuò il Mahanayake Thero — voi volete la nostra montagna.

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