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Non ne restava nient'altro, tranne una scalinata di granito che si alzava dal cumulo di pietrisco che un tempo doveva formare la testa della creatura. Bastavano quelle rovine a ispirare un senso di timore reverenziale: chiunque avesse osato raggiungere il palazzo del re doveva passare tra le mascelle spalancate.

L'ultima salita lungo la facciata perpendicolare (anzi, leggermente inclinata in avanti) della Montagna si compiva lungo una serie di scalini di ferro, protetti da un parapetto per rassicurare i turisti più nervosi. Ma Morgan era stato avvertito che il vero pericolo, lì, erano le vertigini. Sciami di vespe normalmente tranquille occupavano piccole cavità nella roccia, e a volte visitatori troppo rumorosi le avevano disturbate, con conseguenze fatali.

Duemila anni prima, quella parete di Yakkagala, la parete nord, era ricoperta di fortificazioni e bastioni che creavano l'ambiente adatto per la sfinge, e dietro quei muri dovevano trovarsi scale che conducevano senza problemi alla cima. Ora i secoli, le intemperie e la mano vendicatrice dell'uomo avevano cancellato tutto. C'era solo la nuda roccia, solcata da miriadi di scanalature orrizzontali e di strette prominenze che un tempo costituivano la base delle costruzioni scomparse.

La salita terminò all'improvviso. Morgan si trovò su un'isoletta sospesa a duecento metri d'altezza su un paesaggio di alberi e campi, pianeggiante in ogni direzione tranne che a sud, dove la catena centrale di montagne tagliava l'orizzonte. Era completamente isolato dal resto del mondo, eppure si sentiva padrone di tutto quello che vedeva. Era da quando veleggiava fra le nubi sospese tra l'Europa e l'Africa che non provava un'estasi aerea così intensa. Sì, quella doveva essere la residenza di un Dio-Re, e le rovine del palazzo gli stavano attorno.

Uno strano labirinto di mura infrante, non più alte di un metro, mucchi di mattoni scoloriti e sentieri pavimentati in granito coprivano l'intera superficie della spianata, fino al precipizio che la chiudeva. Morgan vide anche una grande cisterna incassata a fondo nella roccia, probabilmente un serbatoio per l'acqua. Dando per scontata la disponibilità di approvvigionamenti, un pugno di uomini coraggiosi poteva difendere quel posto all'infinito; ma se Kalidas aveva davvero voluto costruire una fortezza, non l'aveva mai messa alla prova. Il suo ultimo incontro col fratello si era svolto ben oltre i bastioni esterni.

Quasi dimentico dello scorrere del tempo, Morgan passeggiò tra le fondamenta del palazzo che anticamente dominava la Montagna. Cercò, da quello che sopravviveva del suo lavoro, di entrare nella mente dell'architetto: perché c'era una sentiero lì? Quella scalinata interrotta conduceva a un altro piano? Se quella nicchia a forma di bara nella roccia era una vasca da bagno, come faceva l'acqua a entrare e a uscire? La ricerca era talmente affascinante che non si accorgeva nemmeno del sole sempre più caldo, sospeso in un cielo senza nubi.

Sotto di lui, il paesaggio verde smeraldo tornava in vita. Come scarabei dai colori sgargianti, uno sciame di piccoli robotrattori si dirigeva verso le risaie. Per quanto potesse sembrare incredibile, un elefante stava riportando sulla strada un autobus che doveva essersi rovesciato affrontando una curva a velocità troppo alta. Morgan udiva la voce squillante del suo portatore, piegato sopra le orecchie enormi. E un rivolo di turisti, che parevano formiche guerriere, stava scorrendo attraverso i Giardini del Piacere; provenivano tutti dalla direzione dell'hotel Yakkagala. Tra un po' non avrebbe potuto più godersi quella solitudine.

Comunque, grosso modo aveva finito di esplorare le rovine; anche se si poteva passare un'intera vita a studiarle nei dettagli. Non gli dispiaceva affatto riposarsi un poco, su una panchina di granito riccamente istoriata che sorgeva proprio sull'orlo del precipizio di duecento metri. Da lì poteva scrutare tutta la parte sud dell'orizzonte.

Morgan lasciò vagare gli occhi lungo le montagne lontane, nascoste, in parte, da una foschia bluastra che il sole non aveva ancora disperso. Osservandola pigramente, si accorse all'improvviso che non si trattava affatto di formazioni nuvolose. Quel cono di foschia non era il risultato effimero di venti e vapori. La sua simmetria perfetta, alta sopra le montagne più basse, era inconfondibile.

Per un attimo, scosso e sorpreso, si sentì invadere dalla meraviglia più assoluta, da uno stupore quasi superstizioso. Non si era reso conto che da Yakkagala si potesse vedere così perfettamente la Montagna Sacra. Eppure eccola lì che riemergeva lentamente dall'ombra della notte, preparandosi ad affrontare un nuovo giorno; e, se lui riusciva nei suoi intenti, un nuovo futuro.

Ne conosceva perfettamente le dimensioni, la geologia; ne aveva tracciato una mappa basata su stereo-fotografie e l'aveva studiata attraverso i satelliti. Ma vederla, per la prima volta, coi propri occhi, la rendeva d'improvviso reale. Fino a quel momento si era trattato solo di teoria. E a volte nemmeno di teoria. Più di una volta, nelle ore grigie prima dell'alba, Morgan si era risvegliato da incubi in cui l'intero progetto diventava una fantasia folle, che oltre a non dargli la gloria l'avrebbe reso lo zimbello del mondo. Una volta un suo collega aveva soprannominato il Ponte "La follia di Morgan": come avrebbero chiamato quel suo nuovo sogno?

Ma gli ostacoli costruiti dall'uomo non l'avevano mai fermato. La natura era il suo vero antagonista, il nemico cordiale che non barava mai e stava sempre alle regole, eppure non mancava mai di approfittare del minimo sbaglio o della minima dimenticanza. E adesso, per lui tutte le forze della natura si concentravano nel lontano cono blu che conosceva tanto bene ma su cui non aveva ancora posato i piedi.

Come Kalidas, in quello stesso punto, aveva fatto tante volte, Morgan scrutò la fertile pianura verdeggiante, soppesando la sfida e valutando la propria strategia. Per Kalidas, Sri Kanda rappresentava sia il potere della casta sacerdotale che il potere degli dèi, che assieme cospiravano contro di lui. Ora gli dèi erano scomparsi, ma i monaci restavano. Rappresentavano qualcosa che Morgan non comprendeva, e che quindi avrebbe trattato con ogni rispetto.

Era ora di scendere. Non doveva fare tardi, specie dal momento che i suoi programmi erano già saltati. Alzandosi dalla lastra di pietra su cui era seduto, un pensiero che lo tormentava da diversi minuti si affacciò finalmente alla sua coscienza. Era strano che avessero sistemato un sedile così ben decorato, con quegli elefanti magnificamente scolpiti, proprio sull'orlo d'un precipizio…

Morgan non poteva resistere a una simile sfida intellettuale. Sporgendosi oltre l'orlo dell'abisso, tentò ancora una volta di far entrare in sintonia la propria mente con quella di un collega morto da duemila anni.

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Malgara

 Nemmeno gli amici più intimi riuscirono a decifrare l'espressione della faccia del Principe Malgara quando, per l'ultima volta, guardò il fratello con cui aveva diviso l'infanzia. Ora il campo di battaglia era tranquillo. Anche i lamenti dei feriti erano stati messi a tacere dalle erbe medicinali, o da spade brandite con forza. Dopo molto tempo il Principe si rivolse alla figura vestita di giallo che gli stava a fianco. — Voi l'avete incoronato, Venerabile Bodhidharma. Ora potete concedergli un altro favore. Preparate tutto per rendergli gli onori dovuti a un re.

Per un attimo il monaco non rispose. Poi disse dolcemente: — Ha distrutto i nostri templi e disperso i sacerdoti. Se venerava qualche dio, era certo Shiva.

Malgara scoprì i denti in quel sorriso crudele che il Mahanayake avrebbe imparato a conoscere fin troppo bene, negli anni che gli restavano.

— Reverendo padre — disse il Principe, in un tono di voce che grondava veleno — era il primogenito di Paravana il Grande, sedeva sul trono di Taprobane, e il male che ha fatto muore con lui. Quando il suo corpo sarà bruciato provvedete a depositarne i resti in un reliquiario, prima che osiate rimettere piede a Sri Kanda.

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