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— Ti capisco, ma è in una botte di ferro. Dopo tutto la torre orbitante è un edificio, non un veicolo.

— Ma non lo sarà più dopo essere passata in mano agli avvocati. Non esistono molti edifici i cui piani superiori viaggino a dieci chilometri al secondo, o quello che è, molto più in fretta delle fondamenta.

— Potresti aver ragione. Fra parentesi, quando ho sentito i sintomi della vertigine all'idea di una torre che arriva quasi alla Luna, il dottor Morgan ha detto: "Allora provate a immaginare che non sia una torre che va in su, ma che sia semplicemente un ponte proteso in fuori". Ci sto ancora provando, senza troppo successo.

— Oh! — esclamò improvvisamente Maxine Duval. — Ecco un altro pezzo del tuo puzzle. Il Ponte.

— Che vuoi dire?

— Lo sapevi che il presidente della Terran Construction, quell'asino presuntuoso del senatore Collins, voleva dare il suo nome al ponte di Gibilterra?

— No, e questo spiega diverse cose. Ma Collins non mi dispiace. Le poche volte che ci siamo incontrati l'ho trovato molto gentile e molto intelligente. Ai suoi tempi non ha fatto studi geotermici di prima qualità?

— Saranno passati cento anni. E tu non rappresenti certamente una minaccia per la sua reputazione. Con te può anche essere gentile.

— Come mai il Ponte è scampato al destino?

— C'è stata una lieve congiura di palazzo fra i dirigenti della Terran Construction. Naturalmente il dottor Morgan non c'entrava per niente.

— Ecco perché non vuole scoprire le sue carte! Lo ammiro sempre di più. Ma adesso è andato a sbattere contro un ostacolo che non riesce a superare. Lo ha scoperto solo pochi giorni fa, e tutto il suo lavoro si è fermato.

— Lasciami indovinare — disse Maxine. — Mi serve a tenermi in allenamento, a non farmi superare dagli altri. Posso capire perché è venuto qui. La base terrestre del suo sistema d'ascensori deve trovarsi sull'equatore, altrimenti non sarebbe verticale. Diventerebbe un po' come quella torre di Pisa prima che cadesse.

— Non capisco… — disse il professor Sarath, agitando le braccia in su e in giù. — Oh, è ovvio… — La sua voce si spense in un silenzio meditabondo.

— Ora — continuò Maxine — sull'equatore esiste solo un numero limitato di posizioni, perché è quasi tutto ricoperto dall'oceano, no?, e Taprobane è ovviamente una di queste posizioni. Anche se non riesco a capire quali vantaggi particolari offra rispetto all'Africa o al Sudamerica. Oppure Morgan sta prendendo in considerazione tutte le possibilità?

— Come al solito, mia cara Maxine, le tue capacità deduttive sono fenomenali. Hai imboccato la pista giusta, ma non puoi andare oltre. Per quanto Morgan abbia fatto del suo meglio per spiegarmi il problema, non pretendo di comprenderne tutti i risvolti scientifici. Ad ogni modo risulta che l'Africa e il Sudamerica non sono adatti per l'elevatore spaziale. È questione di punti instabili all'interno del campo gravitazionale terrestre. Solo Taprobane è adatta. Peggio ancora, solo una certa località di Taprobane. Ed è qui, Paul, che tu entri in scena.

— Mamada? — esclamò il professor Sarath, che la sorpresa e l'indignazione riportarono al taprobani.

— Sì, tu. Il dottor Morgan ha appena scoperto, con estremo turbamento, che la località di cui ha "assoluto" bisogno è già occupata, se così vogliamo dire. Vuole che io lo consigli su come far sloggiare il tuo buon amico Buddy.

Adesso era Maxine a sentirsi perplessa. — Chi? — disse.

Sarath rispose immediatamente. — Il Venerabile Anandatissa Bodhidharma Manhayake Thero, reggitore del tempio di Sri Kanda — intonò, come se stesse cantando una litania. — Allora è questo il nocciolo della faccenda.

Per un attimo ci fu silenzio. Poi un'espressione di perfida delizia allo stato puro apparve sulla faccia di Paul Sarath, professore emerito d'archeologia dell'università di Taprobane.

— Ho sempre desiderato — disse con aria sognante — sapere cosa accade esattamente quando una forza irresistibile si scontra con un oggetto inamovibile.

11

La principessa silenziosa

 Quando gli ospiti se ne furono andati, Rajasinghe, estremamente pensieroso, depolarizzò la finestra della biblioteca e rimase per molto tempo a fissare gli alberi attorno alla villa, e le pareti rocciose di Yakkagala che sorgevano più lontane. Non si era ancora mosso quando, esattamente al rintocco delle quattro, l'arrivo del tè del pomeriggio lo riscosse dalle sue fantasticherie.

— Rani — disse — chiedi a Dravindra di tirare fuori i miei scarponi pesanti, se riesce a trovarli. Voglio andare sulla Montagna.

Rani, sorpresa, finse di lasciar cadere il vassoio.

— Aiyo, Mahathaya! — cantilenò in tono funebre. — Dovete essere impazzito. Ricordate quello che vi ha detto il dottor McPherson…

— Quell'idiota di scozzese guarda sempre i miei cardiogrammi al contrario. Ad ogni modo, mia cara, per cosa dovrei vivere quando tu e Dravindra mi avrete lasciato?

Non diceva solo per scherzo, e si pentì immediatamente di tanta autocommiserazione. Rani se ne accorse, e i suoi occhi si riempirono di lacrime.

La ragazza si girò, per nascondere la sua emozione, e disse in inglese: — Mi ero offerta di restare, almeno per il primo anno di Dravindra…

— Lo so, e non accetterei mai. A meno che Berkeley sia cambiata dall'ultima volta che ci sono stato, avrà bisogno di te. — "Non più di quanto ne abbia bisogno io, anche se in modo diverso" pensò fra sé. — E poi, a prescindere dal fatto che tu prenda o no la laurea, non è mai troppo presto per imparare a essere la moglie di un preside di facoltà.

Rani sorrise. — Non so se si tratta di un destino tanto piacevole, a giudicare da alcuni orribili esempi che conosco. — Riprese a parlare in taprobani. — Non dite davvero sul serio, eh?

— Sono serissimo. Non voglio arrivare alla cima, naturalmente; solo agli affreschi. Sono cinque anni che non salgo più lassù. Se aspetto ancora un po'… — Non c'era bisogno di terminare la frase.

Rani lo scrutò in silenzio per qualche secondo, poi decise che era inutile discutere.

— Ne parlerò a Dravindra — disse. — E a Jaya… Nel caso dovessero riportarvi indietro.

— Benissimo. Comunque sono sicuro che Dravindra potrebbe cavarsela da solo.

Rani gli dedicò un sorriso felice, in cui si mescolavano orgoglio e contentezza. Loro due, pensò lui dolcemente, erano stati la miglior scommessa vinta al banco della lotteria di stato; e sperava che quei due anni passati al suo servizio fossero stati gradevoli per loro quanto lo erano stati per lui. In quell'epoca, la servitù era il più raro dei lussi, concesso unicamente a uomini dai meriti straordinari. Rajasinghe non conosceva nessun altro civile che possedesse tre persone addette alla sua cura.

Per risparmiare le forze, nei Giardini del Piacere si servì di un triciclo a energia solare. Dravindra e Jaya scelsero di procedere a piedi, sostenendo che si faceva prima (il che era vero, però loro riuscivano a percorrere le scorciatoie). Poi salì molto lentamente, fermandosi diverse volte a riprendere fiato, finché non ebbe raggiunto il lungo corridoio della Galleria Inferiore, dove la Parete a specchi correva parallela alla faccia della Montagna.

Osservata dai soliti turisti curiosi, una giovane archeologa proveniente da una delle nazioni africane scrutava la parete in cerca d'iscrizioni, aiutandosi con una potente torcia obliqua. Rajasinghe fu sul punto d'avvertirla che le probabilità di fare una scoperta nuova erano praticamente zero. Paul Sarath aveva trascorso vent'anni a studiare ogni millimetro quadrato delle pareti, e i suoi "Graffiti di Yakkagala" in tre volumi erano un lavoro superbo, insuperabile, se non altro perché non sarebbe mai esistito un altro uomo capace di leggere con altrettanta abilità le iscrizioni in taprobani arcaico. Erano tutti e due giovani, quando Paul aveva iniziato il lavoro della sua vita. Rajasinghe ricordava ancora il momento in cui si trovava in quel medesimo punto, e l'allora vice-assistente epigrafista del Dipartimento d'Archeologia aveva scoperto le iscrizioni quasi indecifrabili sul gesso giallo e aveva tradotto i poemi dedicati alle bellissime donne dipinte sulla roccia. Dopo tanti secoli, quei versi facevano ancora vibrare qualcosa nel cuore di chi li leggeva:

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