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Le stelle stavano riprendendo il loro posto, non più nascoste da quello strano intruso giunto dai poli. Morgan cominciò a scrutare lo zenit senza troppe speranze, chiedendosi se la Torre fosse già visibile. Ma riusciva a vedere solo pochi metri, ancora illuminati dal debole splendore aurorale, del nastro sottile che il Ragno risaliva speditamente. Quel nastro minuscolo da cui dipendeva la sua vita, e la vita di altre sette persone, era così uniforme e monotono che non lasciava affatto intuire la velocità della capsula. Morgan trovava difficile credere che stava sfrecciando a più di duecento chilometri l'ora. E quel pensiero lo riportò d'improvviso all'infanzia, e lui seppe perché si sentiva così felice.

Si era ripreso in fretta dalla perdita di quel primo aquilone, era passato a modelli più grandi e più complessi. Poi, appena prima di scoprire il Tecnomeccano e di abbandonare per sempre gli aquiloni, aveva condotto qualche esperimento coi paracadute. A Morgan piaceva pensare di aver escogitato l'idea da solo, anche se forse qualche lettura o qualche spettacolo gliel'avevano suggerita. La tecnica era talmente semplice che intere generazioni di ragazzi dovevano averla riscoperta.

Per prima cosa preparava una sottile striscia di legno lunga circa cinque centimetri e vi agganciava due fermagli per carta. Poi faceva passare il filo dell'aquilone tra i fermagli, preparava un paracadute di carta sottile, grande quanto un fazzoletto, con nastri di seta; un quadratino di cartone serviva da contrappeso. Quando aveva attaccato il quadratino alla striscia di legno con un elastico, ma non troppo stretto, il gioco era fatto.

Spinto dal vento, il piccolo paracadute risaliva lungo il filo, arrivando fino all'aquilone lungo quella graziosa catenaria. Poi Morgan dava un colpo deciso e il contrappeso di cartone si sganciava dall'elastico. Il paracadute si allontanava in cielo, mentre l'intelaiatura di legno e filo gli tornava subito in mano, pronta per il lancio successivo.

Con quanta invidia aveva guardato le sue creature di carta che volavano leggere verso il mare! Quasi tutte cadevano sull'acqua prima di aver percorso un solo chilometro, ma a volte un paracadute se ne stava ancora coraggiosamente in alto quando scompariva ai suoi occhi. Gli piaceva immaginare che quei giocattoli fortunati raggiungessero le isole incantate del Pacifico; aveva anche scritto il suo nome e indirizzo sui quadratini di cartone, senza però ricevere mai risposta.

Morgan non poté impedirsi di sorridere a quei ricordi dimenticati da tempo; eppure spiegavano molte cose. I sogni dell'infanzia erano stati sorpassati, di gran lunga, dalla realtà della vita adulta; si era guadagnato il diritto di essere felice.

— Sei quasi a trecentottanta chilometri — disse Kingsley. — Come va l'elettricità?

— Sta cominciando a diminuire. È all'ottantacinque per cento. La batteria si sta scaricando

— Se tiene per altri venti chilometri ha fatto il suo lavoro. Come ti senti?

Morgan fu tentato di rispondere con superlativi, ma la sua cautela naturale lo dissuase. — Sto bene — disse. — Se potessimo assicurare uno spettacolo del genere a tutti i passeggeri, saremmo sommersi dalle folle.

— Forse si può fare — rise Kingsley. — Potremmo chiedere al Controllo Monsoni di inviare qualche elettrone nei punti giusti. Non è il loro lavoro normale, ma con le improvvisazioni se la cavano bene, no?

Morgan ridacchiò, ma non rispose.

I suoi occhi erano puntati sul pannello di controllo, da cui risultava che il flusso d'elettricità e la velocità di salita stavano diminuendo in maniera sensibile. Ma non c'era motivo d'allarmarsi: su 400 chilometri previsti il Ragno ne aveva già divorati 385, e la batteria esterna aveva ancora un po' di carica.

Al trecentonovantanovesimo chilometro Morgan prese a ridure la velocità di salita, finché il Ragno rallentò sempre di più. Dopo un po' la capsula si muoveva appena, e alla fine si fermò poco dopo il quattrocentocinquesimo chilometro.

— Sgancio la batteria — annunciò Morgan. — Attenzione alla testa.

Si era pensato a lungo al modo di recuperare quella batteria pesante e costosa, ma non c'era stato il tempo d'improvvisare un sistema di freni che la riportasse indietro, come una delle intelaiature per paracadute di Morgan.

In effetti un paracadute sarebbe stato disponibile, ma si era temuto che potesse impigliarsi nel nastro. Fortunatamente la zona dell'impatto, dieci chilometri a est del Capolinea Terrestre, si trovava nel fitto della giungla.

Gli animali selvatici di Taprobane avrebbero corso un bel rischio, e Morgan era già pronto a discutere col Dipartimento per l'Ecologia.

Tolse la sicura e poi schiacciò il pulsante che azionava le cariche esplosive. Il Ragno ebbe un veloce scossone alla detonazione. Poi mise in funzione la batteria interna, allentò dolcemente i freni, e diede nuovamente energia ai motori.

La capsula ripartì per l'ultima parte del viaggio. Ma un'occhiata al pannello rivelò a Morgan la presenza di un serio inconveniente. Il Ragno avrebbe dovuto salire a più di duecento chilometri orari; invece andava al di sotto dei cento, anche a pieno regime. Non erano necessari calcoli o prove. La diagnosi di Morgan fu istantanea, e le cifre parlavano da sole. Scosso e deluso, si rimise in contatto con la Terra.

— Siamo nei guai — disse. — Le cariche sono esplose, ma la batteria non si è sganciata. Qualcosa la tiene fissa al suo posto.

Naturalmente era inutile aggiungere che la missione era fallita. Tutti sapevano perfettamente che il Ragno non sarebbe riuscito a raggiungere la base della Torre con diverse centinaia di chili di peso morto.

48

Notte alla villa

Ormai l'ambasciatore Rajasinghe aveva bisogno di poco sonno. Era come se la Natura, benevolmente, gli stesse concedendo di sfruttare al massimo gli anni che gli rimanevano. E in nottate come quella, quando i cieli di Taprobane erano illuminati dallo spettacolo più straordinario che si vedesse da secoli, chi restava a letto?

Quanto avrebbe desiderato che Paul Sarath fosse lì con lui a vederlo! Il suo vecchio amico gli mancava più di quanto avrebbe ritenuto possibile; non c'era nessuno che potesse infastidirlo e stimolarlo come Paul, nessuno con cui avesse diviso, sin dalla fanciullezza, tante esperienze. Rajasinghe non aveva creduto di poter sopravvivere a Paul, o di riuscire a vedere la fantastica stalattite della Torre (un miliardo di tonnellate!) colmare quasi per intero l'abisso tra l'orbita sincrona e Taprobane, trentaseimila chilometri più in basso. Negli ultimi tempi Paul era diventato un nemico accanito del progetto; aveva detto che era una spada di Damocle, e non aveva mai smesso di predire che tutto sarebbe ricaduto sulla Terra. Eppure persino Paul aveva ammesso che la Torre aveva già prodotto alcuni vantaggi.

Forse per la prima volta nella storia, il resto del mondo era al corrente dell'esistenza di Taprobane, e stava scoprendo la sua antica cultura. Yakkagala, con la sua mole enorme e le sue leggende sinistre, aveva suscitato un'attenzione particolare; per cui Paul era riuscito a ottenere i flnanziamenti per alcuni dei suoi progetti più amati. L'enigmatica personalità del creatore di Yakkagala aveva già fornito spunto a numerosi libri e videodrammi, e lo spettacolo "son-et-lumière" ai piedi della Montagna registrava regolarmente il tutto esaurito. Poco prima di morire, Paul aveva detto seccamente che Kalidas stava diventando un buon affare, e che era sempre più difficile distinguere tra leggenda e realtà.

Subito dopo la mezzanotte, quando fu evidente che l'aurora boreale era giunta al culmine, Rajasinghe venne trasportato in camera da letto. Come faceva sempre dopo aver dato la buonanotte al personale della villa, si concesse un momento di relax con un bicchierino di ponce caldo e diede un'occhiata alle ultime notizie. L'unica cosa che lo interessava sul serio era l'impresa di Morgan: ormai doveva essere vicino alla base della Torre.

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