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Il sole ferito

L'ultima volta che Morgan aveva visto Dev, suo nipote era un bambino. Adesso era alle soglie dell'adolescenza; e al loro incontro successivo, di quel passo, sarebbe stato un uomo.

L'ingegnere provava un senso di colpa assai modesto. Negli ultimi due secoli i vincoli familiari si erano allentati; lui e sua sorella avevano poco in comune, a parte l'affinità genetica, Si scambiavano auguri e chiacchiere forse una mezza dozzina di volte l'anno, erano in ottimi rapporti, però lui non era nemmeno sicuro di dove e quando si fossero visti l'ultima volta.

Eppure, quando salutò quel ragazzo disinvolto e intelligente (niente affatto intimidito, a quanto pareva, dalla fama dello zio), Morgan provò una malinconia dolce-amara. Non aveva figli destinati a portare il nome di famiglia. Molto tempo prima, aveva compiuto la sua scelta fra il lavoro e la vita, scelta che ai massimi livelli dell'impegno umano diventa quasi inevitabile. In tre occasioni, senza contare la storia con Ingrid, avrebbe potuto scegliere una strada diversa; ma i casi della vita, o forse l'ambizione, l'avevano fatto desistere.

Conosceva benissimo i termini del contratto che aveva firmato, e li accettava; ormai era troppo tardi per protestare sulle clausole a caratteri minuscoli. Qualsiasi sciocco poteva trasmettere i propri geni, e quasi tutti lo facevano. Però, che la storia gli rendesse credito o meno, pochi uomini avrebbero potuto fare quello che lui aveva fatto e stava per fare.

Nelle ultime tre ore, Dev aveva visto del Capolinea Terrestre più di quanto non vedessero i soliti gruppi di VIP. Era penetrato nella montagna a livello del suolo, seguendo il percorso fino alla Stazione Sud, quasi completa; e gli erano stati mostrati i complessi per lo smistamento passeggeri e bagagli, il centro di controllo, l'enorme piattaforma girevole su cui le capsule in arrivo dai binari est e ovest sarebbero state trasferite ai binari in salita nord e sud. Aveva ammirato la colonna alta cinque chilometri (una gigantesca canna di pistola puntata contro le stelle, come già l'avevano definita sottovoce centinaia di giornalisti) lungo cui si sarebbero alzate e sarebbero discese le capsule. E le sue domande avevano distrutto tre guide, finché l'ultima, felicissima, l'aveva consegnato allo zio.

— Eccolo qui, Van — disse Warren Kingsley quando arrivarono, servendosi dell'ascensore ad alta velocità, alla cima tronca della montagna. — Portatelo via prima che mi rubi il lavoro.

— Non sapevo che fossi così bravo in queste faccende, Dev.

Il ragazzo parve offeso, e un tantino deluso. — Zio, non ti ricordi il Tecnomeccano numero dodici che mi hai regalato quando ho compiuto dieci anni?

— Certo, certo. Scherzavo. — (E, a dire il vero, non è che si fosse proprio scordato la scatola di costruzioni; gli era solo uscita di mente per un attimo.) — Non hai freddo, quassù? — A differenza di tutti gli adulti, il ragazzo aveva rifiutato il consueto termocappotto di stoffa leggera.

— No. Sto benissimo. Che tipo di jet è questo? Quand'è che aprirete la colonna? Posso toccare i nastri?

— Capisci cosa intendevo? — ridacchiò Kingsley.

— Uno: è il jet speciale dello sceicco Abdullah. Abbiamo ospite suo figlio Feisal. Due: non toglieremo la copertura finché la Torre raggiungerà la montagna ed entrerà nella colonna. Ci serve come piattaforma di lavoro e non lascia passare la pioggia. Tre: se vuoi puoi toccare i nastri… Non correre! A quest'altezza ti fa male.

— Ne dubito, a dodici anni — commentò Kingsley, mentre la schiena di Dev spariva in fretta. Loro due se la presero calma. Raggiunsero il ragazzo all'ancora del lato est.

Dev stava fissando, come già avevano fatto tante migliaia di ragazzi, il sottile nastro grigio che si alzava dal suolo e correva incontro al cielo in verticale. Il suo sguardo lo seguì su, su, su, fino a che la sua testa non poté più piegarsi all'indietro. Morgan e Kingsley non lo imitarono, anche se la tentazione, dopo tutti quegli anni, era ancora forte. E non gli dissero che alcuni turisti si sentivano talmente male da svenire e dover essere trascinati via.

Il ragazzo era in gamba: fissò intensamente lo zenit per quasi un minuto, come se sperasse di vedere le migliaia di uomini e i milioni di tonnellate di materiale sospesi oltre il blu profondo del cielo. Poi chiuse gli occhi con una smorfia, scosse la testa, e si guardò un attimo i piedi quasi ad assicurarsi che si trovava ancora sulla solida, incrollabile Terra.

Tese una mano con cautela e carezzò il nastro sottile che univa il pianeta con la sua nuova luna.

— Cosa succederebbe se si spezzasse? — chiese.

Era una vecchia domanda. Molti restavano sorpresi dalla risposta.

— Pochissimo. A questo punto, non si trova praticamente sotto tensione. Se tu tagliassi il nastro resterebbe lì, a dondolare al vento.

Kingsley ebbe un'espressione di disgusto. Tutti e due sapevano che quella semplificazione era eccessiva. In quel momento, ognuno dei quattro nastri era sottoposto a una tensione di circa cento tonnellate; ma era una cifra trascurabile a paragone dei pesi che avrebbero sorretto quando, integrati nella struttura della Torre, avessero cominciato a svolgere il loro lavoro. Comunque era inutile confondere il ragazzo con dettagli del genere.

Dev meditò sulla risposta; poi diede un colpetto sperimentale al nastro, quasi sperasse di cavarne una nota musicale. Ma l'unica reazione fu un "clic" modestissimo che svanì subito.

— Se tu lo colpissi con un martello da fabbro — disse Morgan — e ritornassi dieci ore dopo, faresti in tempo a sentire l'eco dalla Stazione di Mezzo.

— Ma non un minuto più tardi — disse Kingsley. — La struttura produce troppo smorzamento.

— Non rovinare tutto, Warren. Adesso vieni a vedere una cosa davvero interessante.

Arrivarono al centro del disco metallico che adesso incoronava la montagna e chiudeva la colonna come un gigantesco coperchio. Lì, equidistante dai quattro nastri che stavano guidando la Torre verso Terra, si trovava un minuscolo osservatorio geodetico, che sembrava ancor più provvisorio della superficie su cui era stato costruito. Ospitava un telescopio di forma bizzarra, puntato direttamente verso l'alto e apparentemente impossibile da puntare in ogni altra direzione.

— È l'ora migliore per guardare. Manca poco al tramonto, e la base della Torre è perfettamente illuminata.

— A proposito di tramonto — disse Kingsley — da' un po' un'occhiata al sole. È ancora più chiaro di ieri. — Nella sua voce, mentre indicava col dito la brillante ellisse appiattita che scompariva nella foschia a ovest, c'era qualcosa di simile alla sorpresa. Le nebbie all'orizzonte avevano talmente smorzato la luce del sole che si poteva fissarlo senza problemi.

Era più di un secolo che non compariva un gruppo simile di macchie. Ricoprivano quasi metà del disco dorato, e sembrava che il sole fosse stato colpito da una malattia terribile, o bucherellato da frammenti di pianeti. Però nemmeno il colossale Giove poteva creare una ferita del genere nell'atmosfera solare: la macchia più grande aveva un diametro di duecentocinquantamila chilometri, avrebbe potuto ingoiare cento Terre.

— Per stanotte è prevista un'altra grande aurora boreale. Il professor Sessui e i suoi ragazzi hanno scelto il momento migliore.

— Vediamo come se la passano — disse Morgan, aggiustando l'oculare. — Guarda un po', Dev.

Il ragazzo guardò attentamente nel telescopio per un attimo, poi disse: — Vedo i quattro nastri che salgono in dentro, cioè in su, e poi scompaiono.

— Non c'è niente in mezzo?

Un'altra pausa. — No. Non c'è segno della Torre.

— Esatto. Si trova ancora a seicento chilometri d'altezza, e il telescopio è al minimo d'ingrandimento. Adesso lo aumento. Allacciate le cinture di sicurezza.

Dev rise a quell'antica frase, resa familiare da dozzine di drammi storici. Eppure in un primo momento non vide niente di diverso, a parte il fatto che le quattro linee puntate verso il centro del campo visivo erano un po' meno nitide. Gli occorse qualche secondo per capire che non doveva aspettarsi nessun cambiamento, dal momento che il suo punto di vista correva in su in coincidenza con l'asse della struttura; i quattro nastri sarebbero rimasti sempre uguali, a prescindere dal punto che lui fissava.

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