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— D'accordo, tenterò. Ma solo per un secondo, la prima volta.

— Temo che non basterà, comunque è una buona idea. Ti abituerai.

Morgan allentò dolcemente i freni ad attrito che tenevano il Ragno immobile sul nastro. D'improvviso gli sembrò di alzarsi dal sedile, e il peso svanì. Contò: — Uno, due! — e di colpo rimise in funzione i freni.

Il Ragno ebbe un sobbalzo, e per una frazione di secondo Morgan si trovò schiacciato sul sedile. I freni intonarono un'orribile litania, poi la capsula fu di nuovo immobile, a parte una lieve vibrazione di torsione che scomparve in fretta.

— È stato un colpo terribile — disse Morgan. — Comunque sono ancora qui, e c'è anche quella maledetta batteria.

— Ti avevo avvertito. Dovrai mettercela tutta. Due secondi come minimo.

Morgan sapeva che era impossibile stare a discutere con Kingsley, visto che l'altro aveva a disposizione tutte le calcolatrici e i computer possibili; però un briciolo di aritmetica in proprio gli avrebbe dato una certa sicurezza. Due secondi di caduta libera… Diciamo mezzo secondo per azionare i freni… Calcoliamo una tonnellata per la massa del Ragno… Il problema era: chi sarebbe saltato per primo? La cintura metallica che bloccava la batteria, o il nastro che lo teneva sospeso a quattrocento chilometri in cielo? In condizioni normali, l'acciaio comune non avrebbe certo potuto mettersi a gareggiare con l'iperfilamento. Ma se frenava troppo in fretta, oppure se i freni cedevano sotto le sue sevizie, potevano cedere sia l'acciaio che l'iperfilamento. Nel qual caso, lui e la batteria sarebbero precipitati a terra più o meno nello stesso momento.

— Vada per i due secondi — disse a Kingsley. — Parto.

Questa volta lo strappo fu tanto violento da scuotere i nervi, e le oscillazioni di torsione impiegarono molto più tempo a scomparire. Morgan era certo che avrebbe sentito, o comunque provato, lo strappo della cintura di acciaio. Per cui non restò sorpreso quando un'occhiata allo specchio gli disse che la batteria non s'era mossa.

Kingsley non pareva troppo preoccupato. — Forse bisogna provare tre o quattro volte — disse.

Morgan fu tentato di rispondergli: "Vuoi prendere il mio posto?" poi ci ripensò. Warren poteva anche godersi la battuta; altri ascoltatori ignoti, forse no.

Dopo la terza frenata (gli sembrava di essere sceso di chilometri, eppure si trattava solo d'un centinaio di metri) persino l'ottimismo di Kingsley cominciò a diminuire. Era chiaro che quel trucchetto non funzionava.

— Vorrei fare le mie congratulazioni a chi ha costruito quella cintura di sicurezza — disse amaramente Morgan. — E adesso cosa mi proponete? Una caduta di tre secondi prima di azionare i freni?

Poteva quasi vedere Warren che scuoteva la testa. — È un rischio troppo grosso. Non è tanto il nastro che mi preoccupa, quanto i freni. Non sono stati progettati per operazioni del genere.

— Comunque abbiamo tentato — risponde Morgan. — E io non voglio arrendermi proprio adesso. Mi venga un colpo che mi lascio fermare da un maledetto dado ad aletta che si trova a cinquanta centimetri dal mio naso. Esco a svitarlo.

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Lucciole bizzarre

01 15 24 "Qui è la 'Friendship Seven'. Cercherò di descrivere il mio ambiente. Mi trovo dentro una grande massa di particelle piccolissime ed estremamente luminose, quasi fossero luminescenti… Seguono la capsula, e sembrano stelle. Ce n'è un mucchio in arrivo…

01 16 10 "Sono lentissime. Non si allontanano da me a più di cinque o sei chilometri all'ora…

01 19 38 "I raggi del sole sono appena spuntati dietro il telescopio… Mentre guardavo fuori dall'oblò, ho visto letteralmente migliaia di piccole particelle luminose che danzavano attorno alla capsula…"

(Comandante John Glenn, "Friendship Seven" del progetto Mercury, 20 febbraio 1962).

Con le tute spaziali di vecchio tipo, sarebbe stato del tutto impossibile raggiungere il dado ad aletta. Era difficile persino con la flexituta che indossava Morgan, però se non altro poteva tentare.

Con estrema cura, visto che tante vite dipendevano da quello che avrebbe fatto, studiò la sequenza di eventi. Doveva controllare la tuta, depressurizzare la capsula, e aprire il portello che, per fortuna, era a portata di mano. Poi doveva slacciare la cintura di sicurezza, mettersi in ginocchio (se ci riusciva!) e afferrare quel dado. Tutto dipendeva da quanto era stretto. Sul Ragno non c'erano utensili di nessun tipo, ma Morgan era pronto a misurare le proprie dita, anche chiuse dai guanti, contro la resistenza del dado.

Stava per trasmettere a Terra i suoi piani, nel caso che qualcuno individuasse un errore fatale, quando si accorse di una sensazione sgradevole al basso ventre. Poteva facilmente sopportarla ancora per molto tempo, se fosse stato necessario, ma era inutile correre rischi. Se usava le tubature igieniche della capsula, non doveva ricorrere allo scomodo meccanismo incorporato nella tuta…

Quando si fu liberato schiacciò il pulsante di SCARICO URINE, e rimase sorpreso da una piccola esplosione alla base della capsula. Stupefatto, vide spuntare quasi subito una nube di stelle scintillanti, come se fosse stata creata una galassia in miniatura. Morgan ebbe l'impressione che, per una frazione di secondo, rimanesse immobile all'esterno della capsula; poi cominciò a cadere verso il basso, con la stessa velocità di una pietra scagliata sulla Terra. Dopo pochi secondi quella galassia microscopica si trasformò in un punto minuscolo, e scomparve.

Niente avrebbe potuto ricordargli con maggior efficacia che era ancora prigioniero del campo gravitazionale terrestre. Ricordò che, nei primi giorni del volo orbitale, gli astronauti si sentivano stupefatti e poi divertiti dall'alone di cristalli ghiacciati che li accompagnava attorno al pianeta. Qualcuno aveva anche inventato, per scherzo, la "Costellazione Urina". Ma lì le cose erano diverse: tutto quello che usciva dal Ragno, per quanto fragile, sarebbe andato a cozzare con l'atmosfera. Non doveva mai dimenticare che, nonostante l'altezza raggiunta, non era un astronauta, libero da ogni peso e costrizione. Era solo un uomo che si trovava in un edificio alto quattrocento chilometri, e che si preparava ad aprire la finestra.

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Sulla veranda

Per quanto sulla cima facesse freddo, e le condizioni atmosferiche fossero tutt'altro che confortevoli, la folla continuava ad aumentare. C'era qualcosa di ipnotico in quella stella minuscola, brillante, immobile allo zenit, su cui in quel momento erano puntati i pensieri del mondo intero, nonché il raggio laser della Stazione Kinte. Arrivando, tutti gli spettatori si dirigevano al nastro nord e lo toccavano con qualcosa a mezza strada fra la vergogna e l'impudenza, come per dire: "Lo so che è stupido, ma mi sembra di essere più vicino a Morgan". Poi si raccoglievano attorno alla macchinetta del caffè e ascoltavano i comunicati diramati dagli altoparlanti. Niente di nuovo alla Torre: i sette naufraghi dormivano, o tentavano di dormire, per risparmiare ossigeno. Per il momento Morgan non era ancora in ritardo, per cui nessuno li aveva informati dell'incidente; ma entro un'ora avrebbero chiamato la Stazione di Mezzo per sapere cos'era successo.

Maxine Duval era giunta a Sri Kanda appena dieci minuti dopo che Morgan era partito. Un tempo, uno sbaglio del genere l'avrebbe mandata su tutte le furie; ora si limitò a scrollare le spalle e a tranquillizzarsi con l'idea che sarebbe stata la prima a impadronirsi dell'ingegnere, non appena tornava. Kingsley non le aveva permesso di parlare con Morgan, e lei aveva accettato persino quell'ordine. Sì, stava proprio invecchiando…

Durante gli ultimi minuti, le sole parole uscite dalla capsula erano una serie di "A posto": Morgan stava eseguendo il controllo della tuta con l'aiuto di un esperto della Stazione di Mezzo. Ora il controllo era terminato; tutti attendevano, pieni di tensione, la cruciale mossa successiva.

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