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Adesso era visibile l'intera montagna, anche se lei non riusciva a valutarne l'altezza esatta, trovandosi esattamente al di sopra. Le due antiche scalinate che correvano lungo i suoi fianchi sembravano strade piane, stranamente serpeggianti; per quanto riusciva a vedere non c'era il minimo segno di vita lungo il loro percorso. Anzi, una parte delle scalinate era bloccata da un albero precipitato; come se la natura, dopo tremila anni, volesse avvisare che stava per riprendersi quello che le spettava.

Maxine lasciò la telecamera uno puntata verso il basso e cominciò a muovere la due. Sullo schermo del monitor sfilarono campi e foreste, poi le lontane cupole bianche di Ranapur, poi le acque scure del mare interno. E apparve Yakkagala…

Zumò sulla Montagna, e riuscì appena a distinguere le forme vaghe delle rovine che ne ricoprivano la sommità. La Parete dello Specchio era ancora in ombra, come la Galleria delle Principesse; non che si potesse sperare di vederle chiaramente da così lontano. Ma i contorni dei Giardini del Piacere, con gli specchi d'acqua e i camminamenti e il grande fossato che li cingeva, erano chiaramente visibili.

La fila di piume bianche la lasciò perplessa per un attimo, poi capì che stava ammirando un altro simbolo della sfida di Kalidas agli dèi: le cosiddette Fontane del Paradiso. Si chiese cosa avrebbe pensato il re, se l'avesse vista levarsi senza nessuno sforzo verso il paradiso del suo sogno ambizioso.

Era quasi un anno che non parlava con l'Ambasciatore Rajasinghe. D'impulso chiamò la sua villa.

— Ciao, Johan — lo salutò. — Come ti pare questa panoramica di Yakkagala?

— Così sei riuscita a convincere Morgan. Come ti senti?

— È una cosa esilarante; è la sola parola adatta. E unica. Ho volato e viaggiato su tutti i veicoli di questo mondo, ma questa è una faccenda assolutamente diversa.

— Cavalcate sicuri il cielo crudele…

— Che roba è?

— Un poeta inglese, dell'inizio del ventesimo secolo:

"Non m'importa se solcate i mari,

"O cavalcate sicuri il cielo crudele…"

— Be', a me importa, e mi sento sicurissima. Adesso vedo tutta l'isola, anche la costa dell'Indostan. A che altezza mi trovo, Van?

— Quasi dodici chilometri, Maxine. La maschera dell'ossigeno è ben stretta?

— Affermativo. Spero che non mi distorca la voce.

— Non temere. Sei sempre inconfondibile. Ancora tre chilometri.

— Quanta energia mi resta?

— Sufficiente. E se tenti di superare i quindici chilometri, inserisco la guida automatica e ti riporto giù.

— Non me lo sogno nemmeno. Complimenti, fra l'altro. Questa è un'ottima piattaforma d'osservazione. I clienti faranno la fila.

— Ci avevamo pensato. Quelli dei satelliti meteorologici e di comunicazione hanno già fatto offerte. Possiamo fornirli di relè e sensori all'altezza che preferiscono. Servirà tutto a pagare le spese.

— Ti vedo! — esclamò d'improvviso Rajasinghe. — Ho appena visto la tua immagine nel mio cannocchiale. Adesso stai agitando il braccio… Non ti senti sola, lassù?

Per un attimo ci fu un silenzio insolito. Poi Maxine Duval rispose dolcemente: — Non sola come dev'essersi sentito Yuri Gagarin, cento chilometri più in alto di me. Van, hai donato qualcosa di nuovo al mondo. Può darsi che il cielo sia ancora crudele, ma tu l'hai ammansito. Sì, forse qualcuno non avrà mai il coraggio d'affrontare questo viaggio: mi spiace molto per lui.

37

Il diamante da un miliardo di tonnellate

Negli ultimi sette anni si era fatto molto, eppure restava ancora moltissimo da fare. Erano state spostate montagne, o per lo meno asteroidi. Adesso la Terra possedeva una seconda luna naturale, sospesa in cielo poco sopra l'altezza sincrona. Aveva un diametro di meno di un chilometro, e diventava sempre più piccola man mano che le toglievano il carbonio e gli altri elementi leggeri. Quello che restava (il nucleo di ferro, i residui e le scorie della lavorazione industriale) avrebbe formato il contrappeso destinato a tenere la Torre in tensione. Sarebbe stata la pietra della fionda lunga quarantamila chilometri che adesso ruotava col pianeta una volta ogni ventiquattr'ore. Cinquanta chilometri a est della Stazione Ashoka fluttuava in cielo il grande complesso industriale che lavorava le megatonnellate (prive di peso, ma non di massa) di materiale grezzo trasformandolo in iperfilamento. Siccome il prodotto finale era per più del novanta per cento carbonio, con gli atomi disposti secondo un perfetto reticolo cristallino, alla Torre era stato affibbiato il soprannome di "diamante da un miliardo di tonnellate". L'Associazione Gioiellieri di Amsterdam aveva seccamente puntualizzato che (a) l'iperfilamento non era affatto diamante, e (b) se lo fosse stato, la Torre avrebbe pesato quindici carati per dieci alla quinta.

Carati o tonnellate, quelle enormi quantità di materiale avevano spremuto al massimo le risorse delle colonie spaziali e l'abilità dei tecnici orbitali. Nelle misure automatiche, negli impianti di produzione e nelle catene di montaggio a gravità zero si era riversato quasi tutto il genio tecnologico dell'umanità, faticosamente acquisito in duecento anni di colonizzazione spaziale. Presto tutti i componenti della Torre (pochi pezzi standard, prodotti in milioni d'esemplari) sarebbero stati radunati in giganteschi mucchi sospesi in cielo, in attesa degli operai robot.

Allora la Torre sarebbe cresciuta in due direzioni: da una parte verso la Terra e dall'altra, contemporaneamente, verso la massa d'ancoraggio orbitante. Il lavoro doveva essere condotto in modo che le sue direttive di sviluppo fossero sempre in equilibrio reciproco. La sezione trasversale della Torre sarebbe diminuita velocemente d'ampiezza scendendo dall'orbita, dove era sottoposta alle tensioni massime, verso la Terra; e sarebbe diventata sempre minore anche in direzione del contrappeso orbitante.

Completato il lavoro, l'intero cantiere di costruzione sarebbe stato lanciato in orbita di trasferimento verso Marte. Quella clausola del contratto aveva causato grossi dispiaceri fra i politici e i finanziatori terrestri adesso che, troppo tardi, era chiaro il potenziale dell'elevatore spaziale.

I marziani avevano fatto un bel colpo. Avrebbero atteso altri cinque anni prima di cominciare a recuperare gli investimenti, ma forse per un altro decennio avrebbero conservato il monopolio virtuale di quel tipo di costruzione. Morgan sospettava seriamente che la torre di Pavonis potesse essere solo la prima di molte torri. Poteva anche darsi che Marte fosse il pianeta migliore per diventare la base d'un insieme di elevatori spaziali, e i suoi energici abitanti non avrebbero perso un'occasione del genere. Se riuscivano a fare del loro mondo, nei prossimi anni, il centro del commercio interplanetario, buona fortuna a loro! Morgan aveva altri problemi di cui occuparsi, alcuni ancora da risolvere.

La Torre, nonostante le dimensioni enormi, era solo il supporto di qualcosa di molto più complesso. Lungo ognuna delle sue quattro facciate dovevano correre trentaseimila chilometri di binari, capaci di operare a velocità mai tentate. Per l'intero percorso dovevano essere alimentati da cavi a super-conduttività, collegati a giganteschi generatori a fusione; e il sistema nel suo insieme doveva essere controllato da una rete di computer incredibilmente complessa, infallibile.

Il Capolinea Spaziale, dove i passeggeri e le merci sarebbero stati trasferiti dalla Torre all'astronave ancorata lì, era già di per sé un progetto colossale. E lo era anche la Stazione di Mezzo. E lo era il Capolinea Terrestre, che in quel momento veniva scavato col laser nel cuore della montagna sacra. E, oltre a tutto questo, c'era l'Operazione Pulizia Totale…

Per duecento anni, satelliti di ogni forma e dimensione, da quelli grandi come un chiodo a interi villaggi spaziali, si erano andati accumulando in orbita attorno alla Terra. Tutto quello che passava al di sotto dell'altissima Torre, a prescindere dalla frequenza dei passaggi, doveva essere preso in considerazione, visto che costituiva un pericolo potenziale. Tre quarti di quel materiale erano relitti abbandonati, dimenticati da tempo. Adesso bisognava rintracciarli tutti e, in qualche modo, sistemarli.

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