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Poi si ricordò di tutta l'energia prodotta durante l'ultimo frenaggio, e si fece un'idea abbastanza esatta della successione di eventi. Doveva essere successo che i circuiti di protezione non avevano funzionato, e le batterie si erano sovraccaricate. I sistemi a prova d'errore, uno dopo l'altro, li avevano traditi; aiutata dalla tempesta ionosferica, la perversità allo stato puro degli oggetti inanimati aveva colpito ancora una volta.

Chang premette il pulsante che azionava gli estintori della cabina batterie. Almeno quelli funzionavano: sentiva il tonfo smorzato degli spruzzi d'azoto dall'altro lato della paratia. Dieci secondi dopo schiacciò il comando di SCARICO NEL VUOTO, che avrebbe scagliato nello spazio l'ozono e, sperava, buona parte del calore assorbito dall'incendio. Anche quel comando funzionava. Era la prima volta che Chang era sollevato nell'udire l'inconfondibile sibilo dell'atmosfera che usciva da un veicolo spaziale; e sperava che fosse anche l'ultima.

Non osò affidarsi alle operazioni di frenaggio automatico, quando finalmente il veicolo raggiunse il punto d'arrivo. Per fortuna lo avevano istruito alla perfezione e riconobbe tutti i segnali visivi, per cui riuscì a fermarsi a pochi centimetri dal dispositivo d'agganciamento. Le due camere di equilibrio vennero collegate a velocità frenetica, e nel tubo di connessione vennero lanciate le provviste e gli equipaggiamenti…

…e vi venne lanciato anche il professor Sessui, grazie agli sforzi combinati del pilota, dell'assistente tecnico e dello steward, quando tentò di tornare indietro a salvare i suoi preziosi strumenti. I portelli della camera di equilibrio si richiusero pochi secondi prima che la paratia della sala motori della capsula cedesse.

Dopo di che, i superstiti non potevano fare altro che attendere in quella stanza nuda di quindici metri quadrati, non dotata nemmeno delle attrezzature di una normale cella di prigione, e sperare che il fuoco si spegnesse. Forse, per la tranquillità dei passeggeri, era bene che solo Chang e l'assistente tecnico fossero in grado di valutare una statistica d'importanza vitale: le batterie a piena carica contenevano la stessa energia di una grande bomba chimica, che in quel momento ticchettava all'estremità inferiore della Torre.

Dieci minuti dopo la frettolosa evacuazione, la bomba scoppiò. Ci fu un'esplosione in sordina, che fece vibrare solo leggermente la Torre, seguita dal rumore del metallo che si lacerava. Quei suoni non erano troppo impressionanti, ma raggelarono i cuori delle persone che li udirono: l'unico mezzo di trasporto di cui disponevano stava andando in pezzi, e loro si trovavano prigionieri a venticinquemila chilometri dalla salvezza. Ci fu un'altra esplosione, più lunga, poi silenzio. Immaginarono che il veicolo fosse precipitato già dalla Torre. Ancora scossi, cominciarono tutti a controllare di quali risorse disponessero; e, poco per volta, cominciarono a capire che la loro miracolosa fuga poteva essere assolutamente inutile.

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Grotta nel cielo

Nel cuore della montagna, fra gli strumenti di rilevazione e comunicazione del centro operativo terrestre, Morgan e il suo staff di tecnici erano radunati attorno all'ologramma della sezione inferiore della Torre, in scala uno a dieci. Era perfetto in ogni dettaglio, persino nei quattro sottilissimi nastri di guida che si stendevano lungo ogni facciata. Svanivano nel nulla appena sopra il pavimento, ed era difficile credere che, anche su quella scala minuscola, dovevano allungarsi ancora di seicento chilometri, sino a forare la crosta della superficie terrestre.

— Dacci la visuale in sezione — disse Morgan — e porta le fondamenta a livello d'occhio.

La Torre perse la sua apparente solidità e divenne un fantasma luminoso: una scatola quadrata, lunga, dalle pareti sottili, vuota, a parte i cavi a superconduttività dell'alimentazione elettrica. La parte inferiore ("fondamenta" era un nome più che adatto, anche se sorgeva cento volte più in alto dell'altezza della Montagna) ora formava un'unica stanza quadrata di quindici metri per lato.

— Punti d'ingresso? — chiese Morgan.

Due parti dell'immagine si accesero d'un colore più vivo. Chiaramente stagliati sulla facciata nord e sud, tra le scanalature di guida, si trovavano i portelli esterni delle due coppie di camere di equilibrio, separate fra loro da tutta la distanza possibile, secondo i canoni di sicurezza comuni a ogni costruzione spaziale.

— Sono entrati dal portello sud, ovviamente — spiegò l'ufficiale di servizio. — Non sappiamo se l'esplosione lo abbia danneggiato.

"Comunque ci sono altri tre punti d'accesso" pensò Morgan, ed erano i due più in basso che gli interessavano. Si era trattato di un ripensamento, aggiunto al progetto originario già in fase di lavori avanzati. Anzi, l'intera base era un ripensamento: all'inizio non si giudicava indispensabile costruire un rifugio lì, nella sezione della Torre che avrebbe finito coll'entrare a far parte del Capolinea Terrestre.

— Avvicinami la parte inferiore — ordinò Morgan.

La Torre si mosse in un grande arco di luce e si fermò a mezz'aria, con l'estremità inferiore rivolta verso Morgan. Adesso l'ingegnere vedeva tutti i particolari di quel pavimento di venti metri quadrati; o forse era un soffitto, considerandolo dal punto di vista di chi stava costruendo in orbita.

Vicino agli orli nord e sud si trovavano i portelli che immettevano nelle due camere d'equilibrio indipendenti e che permettevano di entrarvi dal basso. L'unico problema era arrivarci, visto che si trovavano sospesi in cielo a seicento chilometri.

— Sistemi di sopravvivenza?

Gli sportelli vennero riassorbiti nella struttura. L'ologramma mise in rilievo un armadietto al centro della stanza.

— È questo il problema, dottore — rispose cupamente l'ufficiale di servizio. — C'è solo l'impianto per mantenere costante la pressione. Niente purificatori, e ovviamente niente fonti d'energia. Adesso che hanno perso la capsula non vedo come possano sopravvivere alla notte. La temperatura sta già scendendo. È a dieci gradi fin dal tramonto.

A Morgan parve che il gelo dello spazio gli avesse invaso l'anima. L'euforia di scoprire che i passeggeri del veicolo esploso erano ancora vivi svanì in fretta. Se anche le fondamenta avessero contenuto ossigeno a sufficienza per diversi giorni, non sarebbe servito a niente se loro congelavano prima dell'alba.

— Vorrei parlare col professor Sessui.

— Non possiamo chiamarlo direttamente. Il telefono d'emergenza delle fondamenta passa solo attraverso la Stazione di Mezzo. Comunque non c'è problema.

Il che non era del tutto vero. Quando fu stabilita la linea, si presentò a rispondere l'autista-pilota Chang.

— Chiedo scusa — disse. — Il professore è occupato.

Dopo un attimo di silenzio incredulo, Morgan rispose, facendo una pausa tra ogni parola e sottolineando il proprio nome con enfasi: — Ditegli che il dottor Vannevar Morgan vuole parlargli.

— Certo, dottore, ma non farà la minima differenza. Sta lavorando su uno strumento coi suoi assistenti. È l'unica cosa che sono riusciti a salvare, una specie di spettrometro. Lo stanno puntando attraverso uno dei finestrini d'osservazione…

Morgan si controllò a stento. Stava per ribattere: "Sono matti?" ma Chang lo prevenne.

— Voi non conoscete il prof… Io ho passato l'ultima settimana con lui. È un po'… be', immagino voi direste che è fissato. Ci siamo dovuti mettere in tre per impedirgli di tornare sulla capsula a riprendersi i suoi strumenti. E mi ha appena detto che se dobbiamo morire comunque, vuole essere maledettamente certo che almeno "uno" dei suoi apparecchi funzioni a dovere.

La voce di Chang gli lasciava capire che, nonostante l'apparente irritazione, il pilota provava un'ammirazione profonda per quel passeggero famoso e difficile. E, a dire il vero, la logica era dalla parte del professore. Era più che sensato salvare il salvabile, dopo tutti gli anni di sforzi che gli era costata quella spedizione sfortunata.

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