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Quando al mattino il cardinale John Domenico Mustafa faceva la doccia a getti aghiformi, la polvere accumulata nella notte formava rivoli di fanghiglia rossastra nello scarico. Quando, con l’aiuto del valletto personale, indossava la tonaca e le vesti (tutti abiti lavati e stirati nella notte) trovava sempre tracce di ruvida polvere nelle pieghe della seta. Mentre faceva colazione (da solo, nella sala da pranzo del governatore) sentiva i granelli sotto i denti. Durante le interviste e gli interrogatori del Sant’Uffizio, tenuti nell’echeggiante salone del palazzo, sentiva la polvere accumularsi nei calzini e nel colletto e fra i capelli e sotto le unghie perfettamente curate.

Fuori, la situazione era assurda. Skimmer e Scorpioni erano bloccati a terra. Lo spazioporto funzionava solo alcune ore al giorno, durante i rari periodi di calma del simùn. I veicoli terrestri parcheggiati divenivano presto cumuli e montagnole di sabbia rossa e perfino i filtri di qualità superiore della Pax non impedivano alle rosse particelle di entrare nei motori, nelle macchine e nei moduli a stato solido. Alcuni antichi mezzi cingolati, veicoli lunari e navette a razzi a fusione mantenevano il flusso di provviste e di informazioni da e per la capitale, ma a tutti gli effetti il governo della Pax e il governo militare su Marte erano giunti a un punto morto.

Il quinto giorno di simùn giunsero rapporti di attacchi palestinesi alle basi della Pax nell’altopiano Tharsis. Il maggiore Piet, il laconico comandante delle forze terrestri del governatore, prese una compagnia mista di soldati della Pax e della Guardia nazionale e partì su mezzi corazzati e veicoli blindati per trasporto truppe. Il convoglio cadde in una imboscata a cento chilometri dall’altopiano e solo Piet e metà dei suoi uomini tornarono a San Malachia.

Nella seconda settimana giunsero rapporti di attacchi palestinesi a una decina di presidi di guarnigione nell’uno e nell’altro emisfero. Si perse ogni contatto con il contingente Hellas e la stazione del polo sud comunicò per radio alla Jibril di essere sul punto di arrendersi agli assalitori.

Il governatore Clare Palo, al lavoro in un piccolo ufficio che era appartenuto a uno dei suoi aiutanti, si consultò con l’arcivescovo Robeson e con il Grande Inquisitore e sganciò bombe tattiche a fusione e al plasma sulle guarnigioni attaccate. Il cardinale Mustafa acconsentì a usare la Jibril come base operativa nella lotta contro i palestinesi e la base polo sud uno fu scorificata dall’orbita. I comandi della Guardia nazionale, della Pax, dei marines della flotta, delle guardie svizzere e del Sant’Uffizio furono concentrati per garantire che la capitale San Malachia, la sua cattedrale e il palazzo del governatore fossero al sicuro da eventuali attacchi. Nell’implacabile tempesta di polvere, ogni indigeno che si avvicinasse a otto chilometri dal perimetro della città e che non portasse su di sé un trasponder autorizzato dalla Pax, fu ucciso. I cadaveri furono ricuperati in un secondo tempo; solo alcuni erano di guerriglieri palestinesi.

«Il simùn non può durare in eterno» brontolò il comandante Browning, capo delle forze di sicurezza del Sant’Uffizio.

«Può durare altri tre o quattro mesi standard» disse il maggiore Piet, che aveva una voluminosa ingessatura per la cura delle ustioni alla parte superiore del torace. «Forse più a lungo.»

La indagini del Sant’Uffizio non davano risultati: gli agenti della Guardia nazionale che per primi avevano scoperto il massacro di Arafat-kaffiyeh furono interrogati di nuovo sotto veritina e neurosonda, ma non cambiarono la loro versione; gli esperti di medicina legale del Sant’Uffizio lavorarono con i coroner dell’ospedale di San Malachia e confermarono che era impossibile risuscitare anche uno solo dei 362 cadaveri, perché lo Shrike aveva strappato ogni nodulo e ogni millifibra di crucimorfo; fu inviata a Pacem una navetta senza pilota, a propulsore istantaneo, con la richiesta di informazioni relative all’identità delle vittime e, cosa più importante, alla natura dell’operazione dell’Opus Dei su Marte e ai motivi dell’esistenza di quel moderno spazioporto; ma la navetta, al suo ritorno, dopo quattordici giorni locali, portò solo le identità degli assassinati e nessuna spiegazione sul loro rapporto con l’Opus Dei né sui motivi dell’attività di quell’organizzazione su Marte.

Dopo quindici giorni di tempesta di sabbia, dopo altri rapporti di continui attacchi palestinesi contro convogli e guarnigioni, dopo lunghi giorni di interrogatori e di inutile vaglio delle prove, il Grande Inquisitore accolse con piacere la comunicazione del capitano Wolmak: sulla Jibril c’era un’emergenza che richiedeva il ritorno del Grande Inquisitore e del suo gruppo, al più presto possibile.

La Jibril era una delle nuovissime astronavi classe Arcangelo: mentre le navette si avvicinavano all’appuntamento in orbita, il Grande Inquisitore ebbe l’impressione che fosse una nave funzionale e micidiale. Non sapeva molto di astronavi, ma perfino lui si era accorto che il capitano Wolmak l’aveva morfizzata in modo che fosse pronta alla battaglia: i vari bracci e spiegamenti di sensori erano stati ritirati sotto il guscio della nave, il rigonfiamento del propulsore Gideon presentava la corazza di riflessione laser e i portelli delle varie armi erano in posizione di sparo. Dietro la nave Arcangelo, ruotava Marte: un disco ammantato di polvere, del colore del sangue coagulato. Il cardinale Mustafa si augurò che quella fosse l’ultima volta che vedeva quel pianeta.

Padre Farrell fece notare che tutte le otto le navi torcia della task force sistema Marte si trovavano in un raggio di cinquecento chilometri dalla Jibril: un raggruppamento difensivo molto serrato, secondo gli standard spaziali. Il Grande Inquisitore capì che c’era in ballo qualcosa di serio.

La navetta del cardinale Mustafa fu la prima ad attraccare; Wolmak incontrò il Grande Inquisitore e il suo gruppo nell’anticamera del portello stagno. Il campo di contenimento interno forniva la gravità.

«Mi scuso per avere interrotto la sua inquisizione, eccellenza» cominciò il capitano Wolmak.

«Lasci perdere le scuse» disse il cardinale Mustafa, togliendosi granelli di sabbia dalle pieghe della tonaca. «Cosa c’è di così importante, capitano?»

Wolmak lanciò un’occhiata all’entourage che usciva dalla camera stagna alle spalle del Grande Inquisitore: padre Farrell, naturalmente, e poi il comandante della sicurezza, Browning, tre aiutanti del Sant’Uffizio, il sergente dei marines Nell Kasner, il cappellano di risurrezione vescovo Erdle, il maggiore Piet, ex comandante delle forze terrestri che il cardinale Mustafa aveva fatto esentare dal servizio del governatore Clare Palo.

Il Grande Inquisitore notò l’esitazione del capitano Wolmak. «Parli pure liberamente, capitano. Tutti in questo gruppo hanno il permesso del Sant’Uffizio.»

Wolmak annuì. «Eccellenza, abbiamo trovato la nave.»

Il cardinale Mustafa lo fissò, senza capire.

«Il cargo pesante che lasciò l’orbita di Marte il giorno del massacro, eccellenza» spiegò il capitano Wolmak. «Sapevamo che quel giorno le navette avevano un appuntamento spaziale con una nave.»

«Ma avevamo supposto che la nave si fosse già allontanata da tempo… che fosse traslata nel sistema al quale era diretta.»

«Sissignore. Però, nell’improbabile caso che la nave non fosse mai entrata in C-più, ho ordinato alle navette di fare una ricerca nel sistema planetario. Abbiamo trovato il cargo nella fascia degli asteroidi.»

«Era quella la destinazione?» domandò il cardinale Mustafa.

Il capitano scosse la testa. «Non credo, eccellenza. Il cargo è freddo e morto. Gira nello spazio. Non mostra segno di vita, non ha niente di acceso, neppure il propulsore a fusione.»

«Ma è davvero un cargo interstellare?» domandò padre Farrell.

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