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Le due lucenti figure scesero a passo svelto la rampa e andarono in direzioni opposte: Gige a sud verso il teleporter, Nemes nella città, passando davanti agli impietriti Scilla e Briareo e alle statue dei soldati della Pax e dei cittadini dello Spettro.

Nemes trovò, letteralmente in tempo zero, la casa dove il soldato della Pax dormiva ammanettato nella stanza d’angolo di fronte al canale. Frugò nei file della base di Bombasino e lo identificò: un lusiano di nome Gerrin Pawtz, trentotto anni standard, pigro e privo d’iniziativa, alcolizzato, a due anni dalla pensione, sei degradazioni e tre condanne al carcere nel suo curriculum, incarichi limitati a servizi di guarnigione e ai più ordinari lavori nella base. Poi cancellò il file. Non aveva interesse in quell’uomo.

Si accertò che la casa fosse deserta, mutò di fase e rimase un momento nella camera da letto. Rumori e movimento tornarono: il russare dell’uomo ammanettato, il movimento di pedoni lungo il canale, una lieve brezza che agitava tendine bianche, il lontano frastuono del traffico, perfino il fruscio delle armature tipo samurai degli agenti della Pax che battevano le vie e i vialetti adiacenti, nella loro infruttuosa ricerca.

Ferma davanti al lusiano, Nemes protese la mano e l’indice, come per indicare la nuca dell’uomo. Un ago spuntò da sotto l’unghia e si estese di dieci centimetri fino al collo dell’addormentato, scivolò sotto la pelle e penetrò nella carne: solo una piccolissima macchia di sangue mostrò l’intrusione. L’uomo non si svegliò.

Nemes ritrasse l’ago ed esaminò il sangue: livello pericoloso di C27H45OH (molto spesso i lusiani erano a rischio per eccesso di colesterolo) nonché basso conteggio di piastrine che indicava la presenza di incipiente purpura trombocitopenica immunitaria, probabilmente dovuta ai primi anni di servizio in ambienti con radiazioni dure in uno dei vari pianeti guarnigione, livello alcolico nel sangue di 122 mg/100 ml (il lusiano era ubriaco, ma per i trascorsi di alcolista probabilmente riusciva a nascondere la maggior parte degli effetti) e, voilà, la presenza dell’oppiaceo artificiale chiamato ultramorfina, misto a elevati livelli di caffeina. Nemes sorrise. Qualcuno aveva drogato il lusiano, somministrandogli ultramorfina sufficiente ad addormentarlo, mescolata a tè o a caffè, ma era stato attento a mantenere il quantitativo sotto il pericoloso livello di overdose.

Nemes annusò l’aria. La sua capacità di cogliere e individuare distinte molecole organiche trasportate dall’aria (ossia il suo senso dell’odorato) era circa tre volte più sensibile di un comune spettrometro gascromatografo di massa: in altre parole, un po’ superiore a quel canide della Vecchia Terra detto segugio di Sant’Uberto. La stanza era piena degli odori caratteristici di molte persone. Alcuni odori erano vecchi; altri, molto recenti. Nemes identificò il puzzo d’alcol del lusiano, vari aromi femminili acuti e muschiati, l’impronta molecolare di almeno due bambini, uno in piena pubertà, l’altro più giovane, ma afflitto da un tipo di tumore che richiedeva chemioterapia, e di due maschi adulti, uno con le tipiche impressioni dolci della dieta di quel pianeta, l’altro con un odore al tempo stesso ben noto ed estraneo. Estraneo, perché l’uomo portava ancora su di sé l’odore di un pianeta che Nemes non aveva mai visitato; ben noto, perché era un peculiare odore umano che lei aveva messo in archivio: Raul Endymion che ancora portava con sé l’odore della Vecchia Terra.

Nemes passò di stanza in stanza, ma non colse l’odore caratteristico che aveva incontrato quattro anni prima, quello della bambina di nome Aenea, né l’odore asettico del servitore di Aenea, l’androide A. Bettik. Solo Raul Endymion era stato in quella casa. E ne era uscito da pochissimo tempo.

Nemes seguì l’usta fino alla botola nel pavimento del corridoio. Scardinò la botola, malgrado la serratura multipla, e si fermò un attimo, prima di scendere la scaletta. Lanciò l’informazione sulla banda comune, ma non ricevette l’impulso di risposta di Gige, che probabilmente era nella fase tempo rapido. Erano trascorsi solo novanta secondi da quando avevano lasciato la navetta. Nemes sorrise. Avrebbe potuto chiamare Gige e lui sarebbe stato lì prima che Raul Endymion e gli altri nel tunnel sottostante avessero fatto cinque respiri.

Ma Rhadamanth Nemes voleva regolare i conti da sola. Sempre col sorriso sulle labbra, saltò nel buco e atterrò sul pavimento del tunnel, otto metri più in basso.

Il tunnel era illuminato. Nemes annusò l’aria fresca, separò dagli altri odori umani quello, carico di adrenalina, di Raul Endymion. Il fuggiasco nato su Hyperion era nervoso. E di recente era stato ammalato o ferito: Nemes sentì in sottofondo il puzzo di sudore permeato di ultramorfina. Senza dubbio Endymion era il forestiero curato dalla dottoressa Molina e qualcuno aveva usato sul povero lusiano l’analgesico prescritto per lui.

Nemes cambiò fase e percorse lentamente il tunnel ora pieno di luce più densa. Non importava quanto fosse grande il vantaggio iniziale di Endymion e dei suoi compari: ora lei li avrebbe raggiunti. Si sarebbe divertita a spiccare dal busto la testa di quel piantagrane, restando nella fase tempo rapido la decapitazione sarebbe parsa sovrannaturale agli spettatori in tempo reale, eseguita da un boia invisibile. Aveva bisogno delle informazioni in suo possesso, ma non aveva bisogno che lui fosse cosciente. La soluzione più semplice era strapparlo ai suoi amici Spettroelica, circondarlo nello stesso campo di fase che proteggeva lei, conficcargli nel cervello un ago per immobilizzarlo, portarlo sulla navetta, depositarlo nella culla di risurrezione e poi affrontare la farsa di ringraziare il colonnello Vinara e il comandante Solznykov per l’aiuto fornito. Appena la nave avesse lasciato l’orbita, avrebbero potuto "interrogare" Raul Endymion: Nemes gli avrebbe infilato microfibre nel cervello, avrebbe estratto RNA e ricordi a volontà. Endymion non avrebbe più ripreso conoscenza: lei e i cloni, appreso dai suoi ricordi tutto ciò che dovevano apprendere, l’avrebbero ucciso e ne avrebbero gettato nello spazio il cadavere. La meta era trovare la bambina di nome Aenea.

All’improvviso si spensero le luci.

"Sono ancora in tempo rapido" si meravigliò Nemes. "Non è possibile." Niente poteva accadere con quella repentinità.

Piantò una frenata e si fermò. Nel tunnel non c’era la minima luce, niente che si potesse amplificare. Nemes passò all’infrarosso e scrutò il tunnel, davanti a lei e dietro di lei. Niente. Aprì la bocca, emise un urlo sonar, si girò di scatto per ripeterlo nella direzione opposta. Vuoto assoluto: da una parte e dall’altra del tunnel le tornò l’eco dell’urlo ultrasonico. Nemes modificò il campo che la circondava e sparò nelle due direzioni un impulso radar di profondità. Il tunnel era vuoto ma il radar di profondità rivelò un labirinto di tunnel simili a quello, lunghi parecchi chilometri. Trenta metri più avanti, dietro una spessa porta metallica, c’era un garage sotterraneo e un assortimento di veicoli e di forme umane.

Ancora diffidente, Nemes mutò di fase per un attimo e cercò di capire come mai le luci si fossero spente in un microsecondo.

La figura era proprio davanti a lei. Nemes ebbe meno di un decimillesimo di secondo per tornare in tempo rapido, mentre quattro pugni muniti di lame la colpivano con la forza di centomila battipali. Fu scagliata all’indietro per tutto il tunnel, fracassò in mille pezzi la scaletta metallica, attraversò la parete di solida roccia e vi si conficcò profondamente.

Le luci rimasero spente.

Il Grande Inquisitore rimase su Marte venti giorni standard e in quel periodo imparò a odiare il pianeta rosso molto più di quanto non avrebbe pensato di poter mai odiare l’inferno stesso.

Non ci fu giorno della sua permanenza in cui non soffiasse il simùn, la tempesta di polvere planetaria. Malgrado il fatto che lui e la sua squadra di ventuno persone avessero occupato il palazzo del governatore nella periferia della capitale San Malachia e malgrado il fatto che il palazzo fosse in teoria ermeticamente sigillato come una nave della Pax, con aria filtrata e compressa e rifiltrata, con finestre composte da cinquantadue strati di plastica ad alta resistenza all’impatto, con ingressi più simili a camere stagne che a porte, la polvere marziana entrava dappertutto.

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