Scegli ancora. Aenea e io facemmo l’amore nella capsula soggiorno oscurata, malgrado la stanchezza e l’ora tarda. Fu un atto lento e tenero e quasi insopportabilmente dolce.
Scegli ancora. Furono le ultime parole che avevo in mente, quando infine andai alla deriva, alla lettera, nel sonno.
Scegli ancora. Avevo capito. Avevo scelto Aenea e la vita con Aenea. E credo che lei avesse scelto me.
E avrei scelto lei e lei avrebbe scelto me di nuovo, l’indomani, e il giorno dopo ancora, e in ogni ora di tutti i giorni a venire.
Scegli ancora. Sì. Sì.
27
Mi chiamo Jacob Schulmann. Scrivo questa lettera ai miei amici di Lodz:
"Carissimi amici, ho aspettato a scrivervi per avere conferma di ciò che ho sentito dire. Ahimè, con nostro grande dolore, ormai sappiamo tutto. Ho parlato con un testimone oculare che riuscì a fuggire. Mi ha raccontato ogni cosa. Li sterminano a Chelmno, presso Dombie, e li sotterrano tutti nella foresta di Rzuszow. Uccidono gli ebrei in due modi: con un colpo d’arma da fuoco o con il gas. È appena accaduto a migliaia di ebrei di Lodz. Non crediate che le mie siano le parole di un pazzo. Purtroppo dicono la tragica, orribile verità.
"Orrore, orrore! Uomo, svesti i panni, cospargiti il capo di cenere, corri per le vie e danza nella follia. Sono così stanco da non riuscire più a usare la penna. Creatore dell’universo, aiutaci!"
Scrivo la lettera il 19 gennaio 1942. Alcune settimane più tardi, durante un disgelo di febbraio che è un falso segno di primavera per i boschi intorno a Grabow, la nostra città, noi uomini nel campo veniamo caricati su furgoni. Su alcune fiancate sono dipinti, a colori vivaci, disegni di alberi tropicali e di animali della giungla. Sono i furgoni per i bambini, preparati la scorsa estate, quando portarono via dal campo i più giovani. Durante l’inverno il colore è sbiadito e i tedeschi non si sono presi la briga di ritoccare i disegni, così quegli allegri quadretti paiono svanire come i sogni dell’estate scorsa.
Ci portano a Chelmno, che i tedeschi chiamano Kulmhof, un percorso di quindici chilometri. Qui ci ordinano di uscire dai furgoni e di andare nella foresta a fare i bisogni. Non ci riesco, non sotto gli occhi delle guardie e degli altri, ma fingo di orinare e mi riabbottono i calzoni.
Ci rimettono nei grossi furgoni e ci portano a un vecchio castello. Qui ci ordinano di nuovo di uscire, ci fanno attraversare un cortile disseminato di vestiti e di scarpe, ci fanno scendere in uno scantinato. Sulla parete dello scantinato c’è una scritta in yiddish: "Da qui nessuno esce vivo". Ora nello scantinato siamo centinaia, tutti maschi, tutti polacchi, molti provenienti dai villaggi vicini come Gradow e Kolo, molti da Lodz. L’aria puzza di umidità e di marciume, di pietra gelida e di muffa.
Dopo alcune ore, mentre la luce svanisce, lasciamo vivi lo scantinato. Sono giunti altri furgoni, più grandi, con portellone a due battenti. Sono dipinti di verde. Non hanno disegni sulle fiancate. Le guardie aprono il portellone e vedo che molti di questi furgoni più grandi sono quasi pieni; ciascuno contiene da settanta a ottanta uomini. Non ne riconosco nessuno.
I tedeschi ci spingono e ci picchiano per farci entrare in fretta nei grandi furgoni. Molti di quelli che conosco si mettono a piangere; allora li guido nella preghiera, mentre ci ammucchiano nei furgoni puzzolenti. "Shema Israel" preghiamo. Preghiamo ancora, quando chiudono con un tonfo le portiere.
Fuori, i tedeschi gridano all’autista polacco e ai suoi aiutanti polacchi. Sento uno degli aiutanti gridare: "Gas!" in polacco; mi giunge il rumore di un tubo o di una manichetta, innestato da qualche parte sotto il nostro furgone. Il motore si riaccende con un rombo.
Alcuni di quelli intorno a me continuano a pregare con me, ma molti si mettono a urlare. La macchina comincia a muoversi, molto lentamente. Capisco che prendiamo la stretta strada asfaltata costruita dai tedeschi, quella che da Chelmno si inoltra nella foresta. Gli abitanti dei villaggi sono rimasti stupiti, perché la strada non porta da nessuna parte: si ferma nella foresta e forma uno spiazzo che consente agli autocarri di girare. Ma lì non c’è niente, solo la foresta e i forni che i tedeschi hanno ordinato di costruire e i pozzi che hanno ordinato di scavare. Ce l’hanno detto gli ebrei del campo che lavorarono a quella strada e che scavarono i pozzi e che costruirono i forni. Non ci credemmo, quando ne parlarono; ma poi quelli sparirono, deportati.
L’aria diventa viziata. Le urla crescono. Il cuore mi sanguina. Diventa difficile respirare. Il cuore mi batte forte. Con la sinistra tengo per mano un giovane, anzi un ragazzo, e con la destra un uomo anziano. L’uno e l’altro pregano con me.
Da qualche parte nel nostro furgone qualcuno canta più forte delle urla, canta in yiddish, canta con voce da baritono educata per l’opera Urica:
Mio Dio, mio Dio,
perché ci hai dimenticato?
Siamo stati gettati nel fuoco già una volta,
ma non abbiamo mai negato la tua sacra Legge.
«Aenea! Mio Dio! Cosa mi succede?»
«Sst. È tutto a posto, amore. Sono qui.»
«Non capisco… cosa?»
Mi chiamo Kaltryn Cateyen Endymion e sono la moglie di Trorbe Endymion, morto cinque mesi fa in un incidente di caccia. Sono anche la madre del piccolo Raul, che ora ha tre anni di Hyperion e al momento gioca vicino al fuoco di bivacco al centro dei carrozzoni, sotto l’occhio vigile delle zie.
Risalgo il pendio erboso della vallata dove i carrozzoni si sono disposti in cerchio per la notte. Ci sono alcuni tripioppi tremuli lungo il ruscello nella vallata, ma per il resto le brughiere sono prive di segni di riferimento, solo erba, erica, artemisia, pietre, sassi arrotondati, licheni. E pecore. Si vedono e si odono centinaia di pecore della carovana, sulle alture verso est: si muovono e si spostano, spinte dai cani da pastore.
Seduta su un affioramento roccioso che consente una bella visuale della valle verso ponente, nonna rammenda vestiti. Una foschia vela l’orizzonte occidentale, significa acqua aperta, il mare; ma il mondo intorno a noi è delimitato da brughiere, dal cielo di un turchese sempre più scuro per il calare della sera, dalle scie di meteoriti che segnano e risegnano silenziosamente quel cielo, dal fruscio dell’erba mossa dal vento.
Mi accomodo su un sasso accanto a nonna. È la madre della mia defunta madre, la sua faccia è la nostra, ma più vecchia, con la pelle segnata dalle intemperie, capelli bianchi e corti, ossa ben marcate in un viso forte, naso affilato, occhi castani circondati da rughe d’allegria.
«Finalmente sei tornata» dice nonna. «Il viaggio è andato bene?»
«Sì» dico. «Tom ci ha portato lungo la costa, da Port Romance, e poi su per la strada del Becco, anziché pagare la tariffa del traghetto e attraversare le paludi. La prima notte ci siamo fermati alla locanda Benbroke, la seconda ci siamo accampati lungo il Suiss.»
Nonna annuisce. Muove abilmente le dita nel lavoro di rammendo. Accanto a sé sulla roccia ha un cesto di vestiti. «E i medici?»
«L’ospedale era molto grande» dico. «I cristiani l’hanno ampliato, dall’ultima volta che siamo stati a Port Romance. Le sorelle, le infermiere, sono state molto gentili, durante gli esami.»
Nonna rimane in silenzio, aspetta.
Guardo giù nella vallata, dove il sole comincia a trovare varchi fra le nubi scure. La luce illumina i fianchi della valle, lancia ombre sottili dietro i bassi macigni e le alture sassose, incendia l’erica.
«Cancro» dico. «Il nuovo ceppo.»
«Questo l’aveva già detto il medico di Moor’s Edge» replica nonna. «Qual è la loro prognosi?»