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Poi il nuovo pontefice uscì sulla balconata e l’ansito si mutò in una ovazione che parve non finire mai.

Era sempre papa Giulio: il viso ben noto, l’alta fronte, gli occhi tristi. Padre Lenar Hoyt, il salvatore della Chiesa, era stato eletto ancora una volta. Sua Santità alzò la mano nella ben nota benedizione e attese che la folla smettesse di acclamare, in modo da poter prendere la parola; ma la folla non smetteva l’ovazione. Il ruggito proveniva da mezzo milione di gole e continuava senza sosta.

"Perché Urbano XVI?" si domandò il padre capitano de Soya. Negli anni da gesuita, aveva letto e studiato a sufficienza la storia della Chiesa. Rapidamente passò in rassegna i suoi appunti mentali sui papi di nome Urbano, molti dei quali meritavano solo l’oblio o peggio. Perché…

«Maledizione» esclamò a un tratto il padre capitano de Soya. La sua voce si perse nel costante ruggito dei fedeli che riempivano piazza San Pietro. «Maledizione.»

Ancora prima che la folla si chetasse abbastanza perché il nuovo-vecchio pontefice parlasse, spiegasse la scelta del nome, annunciasse ciò che andava annunciato, il padre capitano de Soya aveva già capito tutto. E si era sentito mancare il cuore.

Urbano II aveva servito la Chiesa dal 1088 al 1099. Durante il sinodo da lui indetto a Clermont — nel novembre del 1095, se de Soya ricordava bene — Urbano II aveva dichiarato la guerra santa contro i musulmani del Vicino Oriente, per soccorrere l’impero bizantino e liberare dalla dominazione musulmana tutti i luoghi sacri cristiani. Quella guerra santa sarebbe stata la prima crociata, la prima di molte e sanguinose campagne militari.

Finalmente la folla si chetò. Papa Urbano XIV iniziò a parlare: la sua voce, ben nota ma dotata di nuova energia, si alzò e ricadde sulla testa del mezzo milione di fedeli in ascolto in carne e ossa e sui miliardi in ascolto davanti ai trasmettitori in diretta.

Ancora prima che il papa iniziasse, il padre capitano de Soya si girò, si aprì a spintoni e a gomitate la strada tra la folla immobile e cercò di allontanarsi da piazza San Pietro, che ora gli dava un doloroso senso di claustrofobia.

Non riuscì ad allontanarsi. La folla era estatica e gioiosa e lui era intrappolato nella ressa. Anche le parole del pontefice erano gioiose e appassionate. Il padre capitano de Soya rinunciò ad andare via e chinò la testa. Mentre la folla cominciava ad applaudire e a gridare: "Deus le volt!", Dio lo vuole, de Soya cominciò a piangere.

Crociata. Gloria. La soluzione finale del problema Ouster. Morte al di là di ogni immaginazione. Distruzione inimmaginabile. Il padre capitano de Soya chiuse gli occhi e li serrò più forte che poteva, ma la visione di raggi di particelle ionizzate che lampeggiavano contro il nero dello spazio, la visione di interi pianeti in fiamme, di oceani mutati in vapore e di continenti ridotti a fiumi di lava, la visione di foreste orbitali che esplodevano in fumo, di corpi carbonizzati che si dissolvevano in nubi di cenere…

Mentre miliardi di persone festeggiavano, de Soya pianse.

4

L’esperienza mi aveva insegnato che le partenze e gli addii a notte fonda sono i più penosi per il morale.

I militari erano particolarmente bravi a iniziare viaggi importanti nel cuore della notte. Durante il mio servizio nella Guardia nazionale di Hyperion, pareva che tutti i maggiori movimenti di truppe iniziassero nelle ore piccole. Cominciai ad associare quella bizzarra mistura di paura e di eccitazione, di terrore e di anticipazione, con il buio prima dell’alba e con l’odore del ritardo. Aenea aveva detto che sarei partito nella notte del suo annuncio alla Compagnia, ma occorse tempo per caricare il kayak, per preparare il bagaglio e decidere che cosa abbandonare per sempre, per chiudere la tenda e la zona di lavoro nel comprensorio; così decollammo sulla navetta solo dopo le due di notte e giungemmo a destinazione quando mancava poco all’alba.

Mi sentivo, lo ammetto, tirato per la cavezza e comandato a bacchetta dall’annuncio di Aenea. Nei quattro anni trascorsi a Taliesin West, molti si erano rivolti a lei per farsi guidare e consigliare, ma io non ero uno di loro. Avevo trentadue anni. Aenea ne aveva sedici. Toccava a me badare a lei, proteggerla e, se era il caso, dirle che cosa fare e quando farla. La nuova piega degli eventi non mi piaceva nemmeno un poco.

Avevo pensato che A. Bettik ci avrebbe accompagnato nel posto da dove avrei preso il largo, ma Aenea disse che l’androide sarebbe rimasto nel comprensorio, così sprecai altri venti minuti per cercarlo e salutarlo.

«La signorina Aenea dice che a tempo debito ci incontreremo di nuovo» dichiarò A. Bettik «perciò confido che ci rivedremo, signor Endymion.»

«Raul» protestai per la millesima volta. «Chiamami Raul.»

«Naturalmente» disse A. Bettik, con quel sorriso appena accennato che suggeriva l’insubordinazione.

«Vaffanculo!» lo rimbeccai e gli tesi la mano. A. Bettik la strinse. Provai l’impulso di abbracciare il nostro vecchio compagno di viaggio, ma sapevo che l’avrei messo in imbarazzo. Gli androidi non erano programmati per essere compassati e ossequiosi — in fin dei conti, erano esseri organici viventi, non macchine — ma tra l’educazione RNA e la lunga pratica, erano creature inguaribilmente formali. A. Bettik, almeno, lo era.

E poi ce ne andammo, Aenea e io; portammo la navetta fuori dell’hangar nella notte del deserto e decollammo col minor rumore possibile. Avevo detto addio agli apprendisti e ai collaboratori della Compagnia, tutti quelli che avevo trovato, ma era tardi e le persone erano sparse nei loro dormitori, tende e ripari. Mi auguravo di imbattermi di nuovo in alcuni di loro — soprattutto quelli delle squadre di costruzione, con cui avevo lavorato per quattro anni — ma in realtà non ero molto convinto che la mia speranza si sarebbe realizzata.

La navetta poteva raggiungere da sola la nostra destinazione — Aenea aveva inserito nel sistema di guida una serie di coordinate — ma lasciai i comandi sul semiautomatico per fingere di essere occupato durante il viaggio. Sapevo che dovevamo percorrere circa 1500 chilometri. Da qualche parte lungo il Mississippi, aveva detto Aenea. La navetta avrebbe potuto coprire la distanza in dieci minuti, se si fosse messa in orbita bassa, ma volevamo risparmiare l’energia sempre più scarsa e le scorte di carburante; così, estese al massimo le ali, mantenemmo velocità subsonica a una comoda quota di diecimila chilometri ed evitammo di morfizzare di nuovo lo scafo fino al momento dell’atterraggio. Ordinammo alla navetta di stare in silenzio se non c’erano comunicazioni importanti (molto tempo prima, dal mio comlog avevo riversato nel nucleo IA della navetta la personalità dell’astronave del console) e poi ci accomodammo, nella luce rossastra degli strumenti di bordo, per parlare e guardare il continente buio che passava sotto di noi.

«Ragazzina» dissi «come mai tanta fretta?»

Aenea mi rispose con quel gesto d’imbarazzo che le avevo visto fare per la prima volta quasi cinque anni prima. «Pareva importante mettere in moto la faccenda» disse poi, con voce pacata, quasi fredda, prosciugata della vitalità e dell’energia che avevano spinto l’intera Compagnia ad assecondarla. Forse ero l’unica persona vivente in grado di riconoscere quel tono: Aenea pareva sul punto di piangere.

«Non può essere così importante» dissi. «Costringermi a partire nel cuore della notte…»

Aenea scosse la testa e per un momento guardò dal finestrino, nel buio. Mi resi conto che piangeva. Quando infine si girò, alla tenue luce degli strumenti i suoi occhi parevano umidi e arrossati. «Se non parti stanotte» disse «mi perderò di coraggio e ti chiederò di restare. Se resti, mi perderò di coraggio di nuovo e rimarrò sulla Terra… non farò mai ritorno.»

Provai l’impulso di prenderle la mano e invece continuai a tenere la mia zampaccia sull’onnicomando. «Ehi» dissi «possiamo fare ritorno insieme. Per me non ha senso che io vada da una parte e tu dall’altra.»

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