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«Ha senso, invece» disse Aenea, così piano che fui costretto a sporgermi per capire le parole.

«A riprendere la nave potrebbe andare A. Bettik» dissi. «Tu e io possiamo restare sulla Terra finché non saremo pronti a fare ritorno…»

Aenea scosse la testa. «Non sarò mai pronta a fare ritorno, Raul. La sola idea mi spaventa a morte.»

Pensai alla caccia disperata che ci aveva spinti a fuggire da Hyperion nello spazio della Pax, evitando al pelo navi torcia e incrociatori della Pax, marines, guardie svizzere e Dio sa cos’altro, compresa la bastarda creatura infernale che era quasi riuscita a ucciderci, su Bosco Divino, e dissi: «Mi sento come te, ragazzina. Forse dovremmo restare davvero sulla Terra. Qui non possono raggiungerci».

Aenea mi guardò e riconobbi l’espressione: non semplice testardaggine, ma la chiusura di ogni discussione in una faccenda già decisa.

«E va bene» dissi. «Ma ancora non mi hai spiegato perché A. Bettik non può prendere il kayak e ricuperare la nave, mentre io faccio ritorno con te via teleporter.»

«Sì, l’ho spiegato. Ma tu non stavi a sentire.» Cambiò posizione sul sedile. «Raul, se tu parti e ci accordiamo di incontrarci in un certo momento in un certo punto dello spazio della Pax, io sono obbligata a varcare il teleporter e a fare ciò che devo fare. E ciò che devo fare dopo devo farlo da sola.»

«Aenea…»

«Sì?»

«È una vera stupidaggine. Lo sai?»

Aenea rimase in silenzio. Sotto di noi, sulla sinistra, in un punto dell’antico Kansas, in quel momento si vedeva un cerchio di fuochi di bivacco. Fissai quelle piccole luci fra tutto quel buio. «Hai idea di quale esperimento i tuoi amici alieni fanno laggiù?»

«No. E non sono miei amici alieni.»

«Cosa non sono? Amici o alieni?»

«Né amici né alieni» rispose Aenea. Mi resi conto che quella era la sua più precisa definizione delle intelligenze quasi divine che avevano trafugato la Vecchia Terra… e rapito anche noi, avevo a volte l’impressione: mi pareva che ci avessero imbrancati come bestiame e spinti a varcare un teleporter dopo l’altro.

«Ti dispiace dirmi qualche altra cosa su questi non amici non alieni? In fin dei conti, qualcosa potrebbe andare storto. Potrei non presentarmi all’appuntamento. Prima di partire, gradirei conoscere il segreto di chi ci ospita.»

Rimpiansi subito di avere detto quelle parole. Aenea si ritrasse come se l’avessi schiaffeggiata.

«Scusa, ragazzina.» Stavolta misi la mano sulla sua. «Non dicevo sul serio. Sono solo arrabbiato, ecco.»

Aenea annuì e vidi di nuovo le lacrime nei suoi occhi.

Mi presi mentalmente a calci. «Tutti, nella Compagnia, erano sicuri che gli alieni fossero benevole creature quasi divine. Parlavano di "Leoni e Tigri e Orsi", ma pensavano "Gesù e Jahweh ed E.T.". Erano sicuri che, quando fosse giunto il momento di chiudere la Compagnia, gli alieni sarebbero comparsi e ci avrebbero guidato nella Pax in una grande nave. Niente pericolo. Niente confusione. Niente casino.»

Aenea sorrise, ma aveva ancora gli occhi lucidi. «Gli esseri umani hanno sempre aspettato che Gesù e Jahweh ed E.T. salvassero loro il culo fin da quando se lo coprivano con pelli d’orso e uscivano dalle caverne. Devono continuare ad aspettare. Questi sono affari nostri, lotta nostra; e dobbiamo pensarci noi stessi.»

«Noi stessi saremmo tu e io e A. Bettik contro ottocento malcontati miliardi di fedeli risorti?» replicai piano.

Aenea ripeté quel gesto aggraziato. «Già» rispose. «Per ora.»

Al nostro arrivo, non solo era ancora buio, ma pioveva a dirotto: una gelida pioggia torrenziale da fine autunno. Il Mississippi era un fiume notevole, uno dei più grandi della Vecchia Terra; la navetta lo sorvolò in cerchio e atterrò in una piccola città sulla riva ovest. Vidi tutto questo sullo schermo a risalto d’immagine: dal finestrino avrei visto solo buio e pioggia.

Superammo un’alta collina coperta di alberi spogli, incrociammo un’autostrada deserta che scavalcava il Mississippi su uno stretto ponte e atterrammo in un’area lastricata a circa cinquanta metri dal fiume. La città si allontanava in una valle fra montagne alberate e dal finestrino vedevamo piccole costruzioni di legno, ampi magazzini di mattoni e alcuni edifici più alti nei pressi del fiume, che forse erano silos di granaglie. Edifici di questo tipo erano stati comuni nel XIX, XX e XXI secolo in quella parte della Vecchia Terra: non riuscivo a immaginare perché quella città non avesse subito i terremoti e gli incendi delle Tribolazioni, né perché Leoni e Tigri e Orsi l’avessero ricostruita, se l’avevano ricostruita. Non c’era segno di popolazione nelle strette vie né tracce di calore nella banda a infrarossi, sia di creature viventi sia di autoveicoli con i loro motori a scoppio; ma, a ben pensarci, erano quasi le quattro di una notte gelida e piovosa. Nessuno con un grammo di sale in zucca sarebbe uscito di casa, con un tempaccio pidocchioso e puzzolente come quello.

Aenea e io ci mettemmo il poncho; presi il piccolo zaino e dissi: «Arrivederci, Nave. Non fare niente che non farei anch’io». Poi scendemmo la scaletta morfizzata e ci ritrovammo sotto la pioggia.

Aenea mi aiutò a estrarre il kayak dal magazzino nel ventre della navetta e insieme percorremmo una viuzza scivolosa, diretti al fiume. Nella nostra precedente avventura fluviale avevo occhiali per la visione notturna, un assortimento di armi e una zattera piena di fantastici marchingegni. Quella notte avevo la torcia laser, nostro unico ricordo del viaggio fino alla Terra (tenuta al minimo per risparmiare energia, illuminava circa due metri di strada), un coltello da caccia navajo nello zaino e una piccola scorta di panini e di frutta secca. Ero pronto ad affrontare la Pax.

«Come si chiama questo posto?» domandai.

«Hannibal» rispose Aenea, cercando di mantenere la presa sullo scivoloso kayak, mentre scendevamo al fiume.

Ormai ero costretto a tenere fra i denti la torcia laser per reggere con tutt’e due le mani la prua della stupida barchetta. Quando giungemmo al punto dove la via diventava una rampa di carico che finiva nel nero torrente del Mississippi, posai il kayak, mi tolsi di bocca la torcia e dissi: «St. Petersburg». Avevo trascorso centinaia di ore a leggere i libri a stampa conservati nella ben fornita libreria della Compagnia.

Nel bagliore riflesso della torcia vidi la figura incappucciata di Aenea annuire.

«È una pazzia» dissi, muovendo il raggio della torcia lungo la via, contro la muraglia di magazzini di mattoni, sul fiume scuro. Il rumore della corrente faceva paura. Il pensiero di calarvi la barca era folle.

«Sì» disse Aenea. «Una pazzia.» La gelida pioggia le batteva sul cappuccio del poncho.

Girai intorno al kayak e presi Aenea per il braccio. «Tu vedi il futuro» dissi. «Quando ci incontreremo di nuovo?»

Teneva la testa china. Scorgevo appena una piccolissima porzione della pallida guancia al riflesso della torcia. Il braccio che stringevo sotto la stoffa del poncho sarebbe potuto essere benissimo un ramo d’albero secco, per tutta la vitalità che vi sentivo. Aenea disse qualcosa, troppo piano perché capissi, col rumore della pioggia e del fiume.

«Cosa?»

«Ho detto che non vedo il futuro!» ripeté lei. «Ne ricordo qualche parte.»

«Qual è la differenza?»

Aenea sospirò e si avvicinò. Faceva talmente freddo che le nuvolette di vapore del nostro respiro si mescolarono. Sentii il flusso di adrenalina provocato dall’ansia, dalla paura, dall’anticipazione.

«La differenza» disse Aenea «è che, se vedi il futuro, lo vedi con chiarezza; se lo ricordi, è… qualcosa di diverso.»

Scossi la testa: la pioggia mi gocciolò negli occhi. «Non capisco.»

«Raul, ricordi la festa di compleanno di Bets Kimbal? Quando Jaev suonò il piano e Kikki si ubriacò tanto da cadere lungo disteso?»

«Sì» risposi, irritato per quella discussione nel cuore della notte, sotto una tempesta, nel momento dell’addio.

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