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«Amen» dissi, prendendo la sinistra di Aenea.

«Amen» disse Aenea.

30

Ci colpirono meno di due secondi dopo la nostra apparizione nel sistema: navi torcia e Arcangelo, che convergevano su di noi come una volta gli squali arcobaleno avevano fatto con me nell’oceano di Mare Infinitum.

«Andate!» gridò la Vera Voce dell’Albero Het Masteen, superando il torrente di fragori che ci travolgeva. «Gli erg stanno morendo! Il campo cederà in pochi secondi. Andate! Il Muir guidi i vostri pensieri. Andate!»

Aenea aveva avuto solo due secondi per dare un’occhiata alla stella gialla al centro del sistema di Pacem, ma bastò. Tenendoci per mano, ci teleportò tra la luce e il frastuono, come se sorgessimo dal calderone di fuoco che faceva ribollire i campi della nave: spiriti che si levavano dai laghi ardenti dell’inferno.

La luce svanì e poi tornò sotto forma di diffuso chiarore di sole. Il cielo era nuvoloso, sopra il Vaticano, e freddo, quasi invernale; una pioggerellina gelida cadeva su vie selciate con ciottoli. Quel giorno Aenea aveva indossato una morbida camicetta marrone chiaro, un giubbotto di pelle marrone e calzoni neri, i più ricercati che le avessi mai visto portare. Aveva i capelli pettinati all’indietro e fissati da due fermagli di tartaruga. La sua pelle pareva fresca, pulita, giovane, e i suoi occhi, così affaticati negli ultimi giorni, erano vivaci e calmi. Mi teneva ancora la mano, mentre ci giravamo a guardare le vie e la gente intorno a noi.

Eravamo sul lato di una viuzza che sbucava in un ampio viale. Piccoli gruppi di persone — uomini e donne in nero, gruppi di preti, stuoli di suore, una fila di bambini al seguito di due suore, dappertutto ombrelli neri e rossi — si muovevano da una parte e dall’altra nei passaggi pedonali, mentre bassi autoveicoli neri scivolavano silenziosamente per le vie. Vidi di sfuggita vescovi e arcivescovi nel sedile posteriore degli autoveicoli: viso distorto da rivoletti di pioggia sulla capote a bolla delle vetture. Nessuno parve accorgersi di noi o del nostro arrivo.

Aenea guardava in direzione delle basse nubi. «La Yggdrasill si è appena teleportata fuori sistema» disse. «Non l’avete percepito?»

Chiusi gli occhi per concentrarmi sul fiume di voci e di immagini oniriche che adesso era sempre sotto la superficie. Percepii una… un’assenza. L’immagine di fiamme, mentre i rami più esterni prendevano fuoco. «I campi hanno ceduto proprio nel momento della traslazione» dissi. «Come hanno fatto a teleportarsi senza di te, Aenea?» Appena formulata la domanda, intuii la risposta. «Lo Shrike.»

«Sì» disse Aenea. Mi teneva ancora la mano. La pioggia era fredda e dietro di noi sentivo gorgogliare grondaie e canali di scolo. Aenea parlò a voce molto bassa. «Lo Shrike porterà la Yggdrasill e la Vera Voce dell’Albero lontano nello spazio e nel tempo. Al loro… destino.»

Ricordai brani dei Canti. La nave-albero che bruciava, mentre i pellegrini guardavano dal mar d’Erba, poco prima che Het Masteen scomparisse misteriosamente con lo Shrike, durante la traversata sui carri a vento. Il templare che ricompariva in presenza dello Shrike, alcuni giorni dopo, nelle vicinanze della valle delle Tombe del Tempo, moribondo per le ferite, senza avere mai avuto il tempo di raccontare la sua storia durante il pellegrinaggio. I pellegrini su Hyperion: il colonnello Kassad; il console dell’Egemonia; Sol Weintraub, padre di Rachel: Brawne Lamia, madre «di Aenea; il templare Het Masteen; Martin Sileno; padre Hoyt, l’attuale papa, tutti incapaci a quel tempo di spiegare gli eventi. Per me, da bambino, solo vecchie parole di un mito. Versi riguardanti estranei. Di sicuro avevano creduto che le loro fatiche e le loro avventure fossero terminate e si erano ritrovati a portare di nuovo il proprio fardello. Troppo spesso, mi rendevo conto ora, da adulto, troppo spesso avviene proprio così, nella vita di noi tutti.

«Vedete quella chiesa dall’altra parte della strada?» disse de Soya.

Scossi la testa per concentrarmi sul presente e non badare alle voci che mi bisbigliavano nella testa. «Sì» dissi, asciugandomi la fronte bagnata di pioggia. «È la basilica di San Pietro?»

«No» disse il prete. «Quella è la chiesa parrocchiale di Sant’Anna. E vicino alla chiesa c’è la Porta Sant’Anna, che permette di entrare nel Vaticano. L’ingresso principale per piazza San Pietro si trova in fondo a quel viale, girando intorno a quelle file d’alberi.»

«Andiamo in piazza San Pietro?» domandai a Aenea. «Nel Vaticano?»

«Se ci riusciamo» rispose lei.

Imboccammo il passaggio pedonale: un uomo e una ragazza che camminavano con un prete in un giorno freddo e piovoso. Dalla parte opposta della via un’insegna indicava che l’imponente edificio privo di finestre era la caserma delle guardie svizzere. Agenti in uniforme da cerimonia, mantello nero del Rinascimento, bianco colletto crespato, lunghe ghette a strisce gialle e nere, reggevano la picca davanti alla Porta Sant’Anna e agli incroci, mentre agenti della sicurezza della Pax, in pratica tuta blindata nera, formavano blocchi stradali e si libravano in alto su skimmer neri.

Piazza San Pietro era chiusa al traffico pedonale, tranne alcuni posti di controllo dove guardie della sicurezza esaminavano con attenzione i lasciapassare e i chip di identità.

«Da lì non passeremo mai» disse padre de Soya. Si era fatto buio: le luci sopra il colonnato del Bernini erano accese e illuminavano le statue e lo stemma araldico papale in pietra. Padre de Soya indicò due finestre illuminate sopra il colonnato, a destra della facciata di San Pietro, sormontata da statue di Cristo, di Giovanni Battista e degli apostoli. «Quelli sono gli uffici privati del papa.»

«A un tiro di schioppo» dissi, ma non pensavo certo di sparare al papa.

Padre de Soya scosse la testa. «Campo di contenimento classe dieci» disse. Lanciò un’occhiata in giro. Gran parte delle persone a piedi aveva varcato i cancelli della sicurezza ed era entrata in piazza San Pietro. Cominciavamo a dare nell’occhio, lì nella via. «Se non facciamo qualcosa» disse padre de Soya «verranno a controllarci i documenti.»

«È il normale livello di controllo?» domandò Aenea.

«No. Può darsi che sia dovuto al messaggio, ma è più probabile che sia il normale servizio di sicurezza per le occasioni in cui Sua Santità celebra una messa ufficiale. Le campane che abbiamo udito poco fa erano un richiamo alla messa pomeridiana celebrata dal papa.»

«Come lo sa?» domandai, stupito che riuscisse a ricavare tanto da un semplice rintocco di campane.

«Lo so perché oggi è giovedì santo» disse padre de Soya. Pareva sorpreso, forse perché non sapevamo un fatto così elementare o forse perché anche lui fino a quel momento l’aveva dimenticato. «Siamo nella settimana santa» soggiunse, parlando piano, come fra sé. «Per tutta questa settimana Sua Santità deve assolvere i doveri papali e diocesani. Oggi, questo pomeriggio, di sicuro durante questa messa, lava i piedi a dodici preti che simboleggiano i dodici discepoli cui Gesù lavò i piedi nell’ultima cena. La cerimonia si teneva sempre nella chiesa diocesana del papa, a San Giovanni in Laterano, che si trovava fuori delle mura vaticane; ma da quando il Vaticano è stato trasferito su Pacem, si tiene in San Pietro. San Giovanni in Laterano non è stata portata via durante l’Egira perché fu distrutta nella guerra delle Sette Nazioni nel XXI secolo e…» Interruppe quelle che avevo ritenuto chiacchiere provocate dal nervosismo. Il suo viso era diventato inespressivo, come accade spesso a chi soffre di una lieve forma epilettica o a chi è immerso in profonda riflessione.

Aenea e io aspettammo che riprendesse a parlare. Guardavo con una certa ansia, lo ammetto, la pattuglia di agenti della sicurezza della Pax, in tuta corazzata nera, che si muoveva verso di noi lungo il viale.

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