Il pannello si chiuse alle spalle dei due; la camera di risurrezione rimase silenziosa e vuota, a parte il cadavere coperto dal sudario e una lievissima traccia di foschia grigia nella debole luce, una nebbiolina mutevole e sempre più sfumata che faceva pensare al distacco dell’anima dei due morti più recenti.
2
Nella settimana in cui papa Giulio morì per la nona volta e padre Duré fu assassinato per la quinta, Aenea e io eravamo a 160.000 anni luce di distanza, sul pianeta trafugato, la Terra — la Vecchia Terra, la Terra vera -, in orbita intorno a una stella di tipo G che non era il Sole, nella Piccola Nube di Magellano, una galassia che non era la galassia della Terra.
Per noi era stata una settimana bizzarra. Non sapevamo, naturalmente, che il papa era morto, perché non esistevano contatti fra la Terra e lo spazio della Pax, a parte i teleporter ormai inattivi. A dire il vero, adesso lo so, Aenea sapeva della dipartita del papa, per tramiti che a quel tempo non sospettavamo, ma a noi non parlò degli eventi accaduti nello spazio della Pax e nessuno pensò di farle domande al riguardo. La nostra vita sulla Terra, in quegli anni d’esilio, era semplice e pacifica e attiva, e ci dava emozioni che ora sono difficili da sondare e quasi dolorose da ricordare. Comunque, quella particolare settimana per noi era stata intensa, ma niente affatto semplice né pacifica: il lunedì era morto il Vecchio Architetto con cui Aenea aveva studiato negli ultimi quattro anni e il suo funerale era stato una faccenda triste e frettolosa nel deserto, quella sera d’inverno, martedì. Il mercoledì Aenea aveva compiuto sedici anni, ma l’evento fu messo in ombra dalla cappa di cordoglio e di confusione che pesava sulla Compagnia Taliesin; solo A. Bettik e io avevamo tentato di festeggiare con Aenea il suo compleanno.
L’androide aveva messo in forno una torta al cioccolato, la preferita di Aenea, e io avevo lavorato per giorni per ricavare da un robusto ramo trovato in una delle gite obbligatorie sulle vicine montagne, volute dal Vecchio Architetto, un bastone da passeggio finemente intagliato. Quella sera mangiammo la torta e bevemmo un po’ di champagne nel piccolo rifugio costruito dall’apprendista Aenea nel deserto; ma lei era mogia mogia, turbata per la morte del vecchio e per il panico della Compagnia. Mi rendo conto adesso che gran parte del suo turbamento derivava di sicuro dalla consapevolezza della morte del papa, dei violenti eventi che si ammassavano all’orizzonte futuro e della fine di quelli che sarebbero stati i più pacifici quattro anni che avessimo mai conosciuto insieme.
Ricordo la conversazione, la sera del suo sedicesimo compleanno. Il buio era calato presto e l’aria era gelida. Fuori della comoda casa di pietra e di tela che lei aveva costruito quattro anni prima, come esame per essere accolta fra gli apprendisti, la polvere soffiava e le piante di artemisia e di yucca stormivano e si torcevano nella stretta del vento. Seduti accanto alla sibilante lanterna, mettemmo da parte i bicchieri di champagne in favore di tazze di tè caldo e parlammo a bassa voce, mentre la sabbia raspava sulla tela.
«È strano» dissi. «Sapevamo che era vecchio e malato, ma nessuno credeva davvero che sarebbe morto.» Mi riferivo ovviamente al Vecchio Architetto, non al lontanissimo papa che per noi significava ben poco. Inoltre, come tutti noi nella Terra esiliata, il Vecchio Architetto mentore di Aenea non aveva il crucimorfo: la sua morte, al contrario di quella del papa, era definitiva.
«Pareva saperlo» disse piano Aenea. «Nell’ultimo mese ha chiamato a uno a uno tutti i suoi apprendisti. Per spartire le ultime briciole di sapienza.»
«Qual è l’ultima briciola di sapienza che ha spartito con te? Se non si tratta di un segreto o di faccende personali.»
Aenea sorrise dietro la tazza di tè fumante. «Mi ha ricordato che il cliente è sempre disposto a pagare il doppio del preventivo, se gli mandi le fatture extra un po’ per volta, quando la costruzione è già iniziata e l’edificio prende forma. Ha detto che con questo sistema si supera il punto di non ritorno: il cliente è preso all’amo come una trota da sei libbre.»
A. Bettik e io ci mettemmo a ridere. Non era una risata irriverente: il Vecchio Architetto era stato una di quelle rare persone che uniscono al vero genio una personalità irresistibile; ma pur ricordandolo con tristezza e affetto non potevamo non riconoscere che era stato anche un uomo egoista e subdolo. E non intendo essere elusivo, riferendomi a lui solo come al Vecchio Architetto: la personalità stampo per quel cìbrido era stata ricostruita da un architetto vissuto prima dell’Egira, Frank Lloyd Wright, attivo tra il XIX e il XX secolo. Tutti, nella Compagnia Taliesin, lo chiamavano rispettosamente signor Wright, compresi gli apprendisti più anziani, suoi coetanei; ma io ho sempre pensato a lui come al Vecchio Architetto, a causa di ciò che Aenea aveva detto del suo futuro mentore, prima che giungessimo sulla Vecchia Terra.
Come se avesse seguito la linea dei miei pensieri, A. Bettik disse: «È curioso, no?».
«Cosa?» domandò Aenea.
L’androide sorrise e si strofinò il braccio sinistro che terminava, appena sotto il gomito, in un liscio moncherino: un’abitudine che ha preso negli ultimi anni. Il robochirurgo della navetta con cui avevamo attraversato il teleporter su Bosco Divino aveva tenuto in vita A. Bettik, ma la particolare biochimica dell’androide non aveva consentito al macchinario di fargli crescere un braccio nuovo. «Voglio dire che, malgrado l’influenza della Chiesa negli affari della specie umana, la domanda se l’uomo abbia o no un’anima che lascia il corpo dopo la morte non ha ancora avuto una risposta precisa» spiegò A. Bettik. «Però, nel caso del signor Wright, sappiamo che la sua personalità cìbrida esiste ancora separata dal suo corpo… o almeno è esistita per un certo tempo, dopo il momento della sua morte.»
«Lo sappiamo con certezza?» obiettai. Il tè era caldo e buono: Aenea e io l’avevamo comprato (barattato, in realtà) al mercato indiano, nel deserto, dove si sarebbe dovuta trovare la città di Scottsdale.
Fu Aenea a rispondermi. «Sì. La personalità cìbrida di mio padre sopravvisse alla distruzione del corpo e fu memorizzata nel disco d’iterazione Schrön impiantato nel cranio di mia madre. Anche dopo, ha avuto un’esistenza separata nella megasfera e poi per un certo periodo è stata nell’astronave del console. Una personalità cìbrida sopravvive come una sorta di fronte d’onda olistico propagato lungo le matrici del piano dati o della megasfera, finché non ritorna alla fonte IA nel Nucleo.»
Conoscevo quella spiegazione, ma non l’avevo mai capita. «D’accordo» dissi «ma dove è andato il fronte d’onda della personalità IA del signor Wright? Non può esserci nessun collegamento con il Nucleo, qui nella Nube di Magellano. Non esistono sfere dati, qui.»
Aenea posò la tazza vuota. «Un collegamento c’è di sicuro, altrimenti il signor Wright e le altre personalità cìbride riunite sulla Terra non esisterebbero. Non dimenticare che il TecnoNucleo sfruttava lo spazio di Planck fra i teleporter come proprio ambiente e nascondiglio, prima che la moribonda Egemonia distruggesse i portali.»
«Il Vuoto che lega» dissi, ripetendo l’espressione usata dal vecchio poeta Martin Sileno nei suoi Canti.
«Già» disse Aenea. «Ma l’ho sempre ritenuta un’espressione sciocca.»
«Quale che sia il nome» replicai «non capisco come possa estendersi fin qui… in un’altra galassia.»
«L’ambiente utilizzato dal TecnoNucleo per i teleporter si estende dappertutto» disse Aenea. «Permea lo spazio e il tempo.» Corrugò la fronte. «No, non è esatto: spazio e tempo sono legati in esso. Il Vuoto che lega trascende lo spazio e il tempo.»
Mi guardai intorno. La luce di lanterna bastava a riempire la piccola costruzione a tenda, ma fuori era buio e il vento ululava. «Allora il Nucleo può davvero arrivare fin qui?»