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La testa di Gige, cieca, colante, cercava di parlare, usava i resti della lingua per formare sillabe sibilanti e glottali. Nemes se l’accostò all’orecchio.

«Ss-t- pp-ffvvv-re.» "Per favore." «Ss-iuu-tt.» "Aiuto." «Ssss-ttp-m-eh.» "Me."

Nemes abbassò la testa di Gige e studiò il corpo sulla riva piena di schizzi. Molti organi mancavano. Decine e decine di metri di microfibra erano disseminati tra le erbacce e nel fango, alcuni erano trascinati via dalla corrente. Intestini grigi e blocchi di gel neurale erano rotti e sparpagliati. Pezzi d’osso luccicavano nella luce del sole che emergeva dalla duplice tenebra. Né la navetta né il medibox della Arcangelo potevano aiutare quell’essere nato in una vasca. E forse il clone avrebbe impiegato vari mesi standard per autoripararsi.

Nemes posò a terra la testa di Gige, avvolse il corpo nei suoi stessi filamenti, lo appesantì con pietre all’esterno e all’interno. Controllò che sul fiume non ci fossero imbarcazioni e gettò lontano nella corrente il corpo decapitato. Aveva già visto che il fiume possedeva spazzini voraci e per niente schizzinosi. Ma non avrebbero trovato appetitose alcune parti del suo clone.

Poi raccolse la testa di Gige. La lingua si muoveva ancora. Sfruttando le orbite per afferrarla tra pollice e indice, Nemes lanciò la testa lontano nel fiume, con un facile colpo sottomano. La testa affondò, provocando appena un’increspatura dell’acqua.

Nemes andò all’arcata del teleporter, strappò dall’esterno rugginoso e in teoria impenetrabile una piastra d’accesso nascosta, emise dal polso un filamento. Si collegò.

"Non capisco" disse Briareo sulla banda comune. "Non porta in nessun posto."

"Non è esatto" replicò Nemes, riavvolgendo il filamento. "In nessun posto della vecchia Rete. In nessun posto dove il Nucleo abbia costruito un teleporter."

"Impossibile" trasmise Scilla. "Non esistono altri teleporter, tranne quelli costruiti dal Nucleo."

Nemes sospirò. I suoi cloni erano idioti. "Fate silenzio e tornate alla navetta" trasmise. "Dobbiamo riferire di persona. Lo stesso consigliere Albedo vorrà scaricare la nostra memoria."

Mutò di fase e tornò alla navetta, nell’aria divenuta densa e nero seppia per il tempo rallentato.

12

Non dimenticai che c’era un pulsante d’emergenza. Il problema è semplice: se c’è davvero un’emergenza, non è detto che si pensi subito al pulsante.

Il kayak cadeva in un infinito abisso d’aria interrotta solo da nuvole che si alzavano per decine di migliaia di metri, dalle profondità violacee al soffitto latteo di altre nuvole migliaia di metri sopra di me. Avevo perduto la pagaia e la guardai roteare in caduta libera. Il kayak e io precipitavamo a velocità maggiore della pagaia, per ragioni di aerodinamica e di velocità terminale che in quel particolare momento trascendevano le mie capacità di calcolo. Grandi flutti ovali di acqua del fiume che mi ero lasciato alle spalle cadevano davanti a me e dietro di me, si separavano.e si sagomavano in ovoidi come avevo visto accadere in ambiente a gravità zero, ma poi erano spazzati via dal vento. Avevo l’impressione di precipitare in una mia personale e localizzata tempesta. La pistola a fléchettes del lusiano era incuneata fra la mia coscia e la parte interna della curvatura dell’abitacolo. Ero a braccia alzate, come un uccello che si prepari a spiccare il volo. Stringevo i pugni per il terrore. Dopo il primo urlo, tenevo le mascelle serrate e digrignavo i denti. La caduta continuava e continuava.

Per un attimo avevo scorto l’arcata del teleporter, sopra e dietro di me, anche se "arcata" non era più la parola esatta: la gigantesca struttura che galleggiava senza sostegni era un anello metallico, un toroide, una rugginosa ciambella. Per un attimo, al di là del brillante anello vidi il cielo di Vitus-Gray-Balianus B; poi l’immagine svanì e anche in quel cerchio sempre più piccolo ci furono solo nuvole. Il toroide era l’unica cosa solida in un panorama composto esclusivamente di nuvole e nella mia caduta ero già precipitato oltre mille metri più in basso. In un momento di fantasia, intontito per il panico, immaginai che, se fossi stato un uccello, avrei potuto tornare in volo all’anello del teleporter, appollaiarmi sull’arco inferiore e aspettare…

"Aspettare cosa?" Mi afferrai ai fianchi del kayak, che girò su se stesso e rischiò di farmi capovolgere, mentre cadeva a piombo, prua in avanti, verso l’abisso violaceo chilometri e chilometri più sotto.

Fu allora che mi ricordai del pulsante d’emergenza. "Non toccarlo, finché non sarai assolutamente costretto a premerlo" aveva detto Aenea, quando avevamo messo in acqua il kayak, ad Hannibal.

Il kayak girò sull’asse longitudinale e a momenti mi sbatté fuori. Col fondoschiena non toccavo più il sedile imbottito: galleggiavo in libertà all’interno del piccolo abitacolo, in una costellazione composta di gocce d’acqua in caduta libera, di una pagaia che ruotava su se stessa e di un kayak che precipitava. Decisi che in quella situazione "ero assolutamente costretto". Tolsi la copertura plastica e premetti col pollice il pulsante rosso.

Alcuni pannelli si spalancarono davanti all’abitacolo, accanto alla prua, e alle mie spalle. Chinai la testa, per evitare una massa di tessuto che si gonfiava. Il kayak si raddrizzò e poi frenò con tale forza che rischiai di volare fuori. Mi afferrai ferocemente ai fianchi dello scafo di fibra di vetro, che rullò selvaggiamente. L’informe massa sopra la mia testa parve sagomarsi in qualcosa di più complicato di un paracadute. Anche tra i fiotti di adrenalina e il digrignare di denti per il panico, riconobbi il tessuto: la "memostoffa" che A. Bettik e io avevamo comprato al mercato indiano presso Taliesin West. Quel materiale piezoelettrico a energia solare era quasi trasparente, superleggero, ultrarobusto e poteva ricordare fino a dodici configurazioni stabilite in precedenza; avevamo pensato di acquistarne dell’altro per sostituire la tela sopra lo studio degli architetti principali, dal momento che la vecchia copertura faceva la pancia, marciva e doveva essere riparata e sostituita regolarmente. Ma il signor Wright aveva insistito per mantenere la vecchia tela: preferiva la luce pastosa. A. Bettik aveva portato nel suo laboratorio una decina di metri di memostoffa e io non ci avevo più pensato.

Fino a quel momento.

La caduta si bloccò. Ora il kayak pendeva da una paravela a delta, sostenuto da una decina di bretelle di nylon-10 che si alzavano da posizioni strategiche lungo la parte superiore dello scafo. Continuavo a scendere, ma in una planata graduale, non a capofitto. Guardai in alto (la memostoffa era abbastanza trasparente da consentire la visuale) ma il toroide del teleporter era ormai troppo lontano e nascosto dalle nuvole. Le correnti d’aria mi portavano lontano dal teleporter.

Sarei dovuto essere grato, suppongo, ai miei amici, la ragazza e l’androide, per avere previsto chissà come quella situazione e per avere preparato il kayak, ma il mio primo pensiero fu un: "Maledizione a voi!", di tutto cuore. Era troppo. Scaricarmi su un pianeta di nubi e di aria, senza terreno, era davvero troppo! Se Aenea sapeva che sarei stato teleportato qui, perché non aveva…

"Senza terreno?" Mi sporsi dal kayak e guardai in basso. Forse l’idea era che planassi dolcemente verso una superficie che ancora non scorgevo.

No. Sotto di me c’erano chilometri di aria e, più in basso, strati violacei e neri, una tenebra turbata solo dal feroce balenare di fulmini. Laggiù c’era di sicuro una pressione terribile. Considerazione che sollevò un’altra domanda: se quello era un pianeta di tipo gioviano, Whirl o Giove o uno degli altri, come mai respiravo ossigeno? Per quanto ne sapevo, tutti i giganti gassosi scoperti dalla specie umana avevano atmosfera di gas non respirabili… metano, ammoniaca, elio, anidride carbonica, fosfina, acido cianidrico, altre simili sgradevolezze, più qualche traccia di vapore acqueo. Non avevo mai sentito parlare di un gigante gassoso con una mistura respirabile di ossigeno e azoto. Eppure respiravo. L’atmosfera era più rarefatta di quella di altri pianeti da me visitati e puzzava un poco di ammoniaca, ma la respiravo, non c’era dubbio. Perciò il pianeta non era un gigante gassoso. Ma allora dove diavolo mi trovavo?

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