Mi rivolsi a padre de Soya, pronto ora a toccare l’urna di Aenea, pronto ad accettare, al primo contatto delle dita contro il freddo metallo, il fatto che lei era scomparsa per sempre. Mi sarei allontanato da solo per trovare un luogo dove spargere le ceneri. Sarei andato a piedi dall’Illinois all’Arizona, se necessario. O forse solo nel punto dove un tempo c’era Hannibal, dove ci eravamo scambiati il primo bacio. Forse era quello il luogo dove Aenea era stata più felice durante la nostra permanenza lì.
«Dov’è l’urna?» dissi, con voce rauca.
«Non l’ho portata» rispose il prete.
«Dove l’ha lasciata?» dissi. Non ero in collera, solo molto molto stanco. «Torno alla torre a prenderla.»
Padre Federico de Soya inspirò a fondo e scosse la testa. «L’ho lasciata sulla nave-albero, Raul. Non mi sono dimenticato di portarla. L’ho lasciata lì di proposito.»
Lo fissai, più perplesso che arrabbiato. Poi mi resi conto che lui, A. Bettik e perfino il vecchio poeta sul suo letto di morte avevano girato la testa verso i dirupi sopra il fiume.
Fu come se fosse passata una nuvola e poi un raggio particolarmente intenso avesse illuminato l’erba per un attimo. Le due figure rimasero immobili per lunghi secondi, poi la più bassa si diresse a passo svelto verso di noi, si mise a correre.
La più alta, naturalmente, era facile da riconoscere anche da quella distanza, riflesso di sole sul carapace di cromo, occhi rossi che si vedevano brillare anche da lontano, luccichio di spine e di punte e di dita affilate. Ma non avevo tempo da perdere per guardare l’immobile Shrike. Quella creatura aveva assolto il suo compito. Aveva teleportato avanti nel tempo se stesso e l’altra persona, con la stessa facilità con cui ormai mi teleportavo nello spazio.
Aenea superò di corsa gli ultimi trenta metri. Aveva un aspetto più giovanile, meno consumato dalle preoccupazioni e dagli eventi: capelli quasi biondi nel sole, frettolosamente legati all’indietro. Era davvero più giovane, mi resi conto, impietrito, mentre lei correva verso il nostro piccolo gruppo più in alto sul pendio. Aveva vent’anni, quattro in più di quando l’avevo lasciata ad Hannibal, ma quasi tre in meno di quando l’avevo vista per l’ultima volta.
Aenea baciò A. Bettik, abbracciò padre de Soya, si chinò sul letto a dare un bacio, con grande gentilezza, al vecchio poeta; poi si girò verso di me.
Ero ancora lì, impietrito.
Aenea si avvicinò e si alzò in punta di piedi, come aveva sempre fatto quando voleva baciarmi sulla guancia.
Mi baciò teneramente sulle labbra. «Mi spiace, Raul» mormorò. «Mi spiace che per te sia stata così dura. Per tutti.»
Così dura per me. Era lì, con piena prescienza della tortura che avrebbe patito a Castel Sant’Angelo, dei cloni Nemes che giravano come avvoltoi intorno al suo corpo nudo, delle fiamme che divampavano…
Mi toccò di nuovo la guancia. «Raul, amore mio, sono qui. Sono io. Per un anno, undici mesi, sette giorni e sei ore sarò con te. E non parlerò più di anni, mesi, giorni e ore. Abbiamo tempo infinito. Saremo sempre insieme. E anche nostro figlio sarà qui con te.»
"Nostro figlio" mi dissi. "Non un messia nato dalla necessità. Non un matrimonio con un osservatore. Nostro figlio! Il nostro figlio umano, fallibile, che cade e piange come tutti i bambini."
«Raul?» Mi toccò la guancia, con le dita indurite dal lavoro.
«Ciao, ragazzina.» L’accolsi fra le braccia.
35
Martin Sileno morì il giorno seguente, sul tardi, alcune ore dopo che Aenea e io fummo uniti in matrimonio. Padre de Soya, ovviamente, celebrò le nozze, così come più tardi celebrò il servizio funebre, poco prima del tramonto. Era contento, disse, d’avere portato con sé i paramenti e il messale.
Seppellimmo il vecchio poeta in uno dei dirupi erbosi sopra il fiume, dove la vista della prateria e delle lontane foreste pareva più bella. Per quanto ne sapevamo, forse un tempo la casa di sua madre si trovava nelle vicinanze. A. Bettik, Aenea e io avevamo scavato una fossa profonda, perché intorno c’erano animali selvatici, la notte precedente avevamo udito ululare i lupi, e poi avevamo ricoperto con pesanti sassi la montagnola. Nella semplice lapide Aenea aveva inciso la data di nascita e di morte del vecchio poeta, un intero millennio meno quattro mesi, il nome in altorilievo e più sotto aveva aggiunto solo:
IL NOSTRO POETA
Lo Shrike era rimasto sul dirupo erboso dove era comparso con Aenea e non si era mosso, quel giorno, né durante la cerimonia delle nostre nozze né durante il servizio funebre e la sepoltura di Martin Sileno a meno di venti metri da quella sentinella irta di punte d’argento e avvolta di spine; ma quando ci allontanammo dalla fossa, lo Shrike avanzò lentamente fino a trovarsi davanti alla tomba, a testa china, le quattro braccia lungo i fianchi, l’ultima luce del giorno riflessa dal liscio carapace e dagli occhi rossi come rubini. E non si mosse più.
Padre de Soya e Ket Rosteen ci invitarono a trascorrere un’altra notte in una stanza della torre, ma Aenea e io avevamo altri progetti. Dalla nave del console avevamo preso attrezzature da campeggio, una zattera gonfiabile, un fucile da caccia, una buona provvista di cibo surgelato nel caso che la caccia non avesse successo, ed eravamo riusciti a infilare il tutto in due grossi zaini. Ora ci fermammo al limitare della fetta di città e guardammo nel crepuscolo la distesa di erba e di boschi e il cielo sempre più scuro. Il tumulo funerario del vecchio poeta era chiaramente visibile contro il tramonto che svaniva.
«Presto sarà buio» s’inquietò padre de Soya.
«Abbiamo una lanterna» sorrise Aenea.
«Ci sono bestie feroci, là fuori» disse il prete. «Gli ululati di ieri notte… Dio solo sa quali predatori stanno per svegliarsi.»
«Questa è la Terra» dissi. «Con il fucile posso cavarmela contro qualsiasi animale, grizzly escluso.»
«E se ci fossero davvero dei grizzly?» insistette il gesuita. «E poi là fuori finirete per perdervi. Non ci sono strade né città. Non ci sono ponti. Come attraverserete i fiumi?…»
«Federico» disse Aenea, posando la mano, gentile ma ferma, sul braccio del prete. «È la nostra notte di nozze.»
«Oh» disse il prete. Le diede un rapido abbraccio, mi strinse la mano e si ritrasse.
«Posso dare un suggerimento, signora Aenea, signor Endymion?» disse timidamente A. Bettik.
Terminai di infilarmi nella cintura il fodero con il coltello e alzai gli occhi. «Potresti dirci cosa avete progettato, voi dall’altra parte del Vuoto che lega, per la Terra negli anni a venire. O finalmente volete dire un bel "ciao" alla specie umana?»
L’androide parve imbarazzato. «Ah… no» rispose. «In realtà il suggerimento è in un modesto regalo di nozze.» Ci porse la custodia di cuoio.
La riconobbi subito. Anche Aenea la riconobbe. Ci mettemmo ginocchioni per togliere dalla custodia il tappeto Hawking e srotolarlo sull’erba.
Il tappeto si attivò al primo tocco e rimase sospeso a un metro dal terreno. Ammucchiati e legati nella parte posteriore gli zaini, sistemato il fucile, c’era ancora spazio per tutti e due, se mi fossi seduto a gambe incrociate e se Aenea avesse preso posto nella nicchia formata dalle mie braccia e dalle mie gambe, schiena contro il mio petto.
«Questo dovrebbe portarci sopra i fiumi e fuori portata degli animali feroci» disse Aenea. «E stanotte non ci allontaneremo troppo per trovare il posto dove accamparci. Appena al di là di quel fiume, fuori portata d’orecchio.»
«Fuori portata d’orecchio?» disse il prete. «Ma perché stare nelle vicinanze, se non potremo udirvi in caso di necessità? Se chiedeste aiuto e… oh!» Diventò tutto rosso.
Aenea lo abbracciò. Strinse la mano a Ket Rosteen e disse: «Fra due settimane le sarei obbligata se lasciasse che Rachel e gli altri si teleportassero giù o scendessero con la nave del console, se vogliono guardarsi intorno. Li aspetteremo alla tomba di zio Martin a mezzogiorno. Potranno restare fino al tramonto. Fra due anni, chiunque sappia teleportarsi qui per proprio conto potrà esplorare a piacimento questi luoghi. Ma potrà fermarsi solo un mese, non di più. E non saranno consentite costruzioni permanenti. Niente edifici. Niente città. Niente strade. Niente steccati. Due anni». Mi sorrise. «Qualche anno fa, i Leoni e Tigri e Orsi e io abbiamo fatto alcuni interessanti piani per questo pianeta. Ma per questi due anni è nostro, di Raul e mio. Perciò, per favore, Vera Voce dell’Albero, per favore, nel viaggio di ritorno alla sua nave-albero, metta un grosso cartello "Vietato l’ingresso". D’accordo?»