«Portaci fuori di qui» ordina Aenea. «Su dritto e fuori. Tra un attimo di darò le coordinate all’interno del sistema. Vai!»
Ho le vertigini e chiudo gli occhi al ruggito dei motori a fusione. Ho la confusa impressione che Aenea mi baci, mi tenga stretto, mi baci le palpebre e la fronte insanguinata e la guancia. Piange.
«Rachel…» La voce di Aenea mi giunge come da molto lontano. «Puoi fare una diagnosi?»
Dita diverse da quelle della mia amata mi toccano brevemente. Sento fitte di dolore, ma sempre più remote. Il gelo scende su di me. Cerco di aprire gli occhi, ma non riesco: sono chiusi dal sangue rappreso o dal gonfiore o da tutt’e due.
«Le ferite che sembrano più gravi sono le meno pericolose» dice Rachel, con tono pacato ma professionale. «Le lacerazioni al cuoio capelluto e all’orecchio, la gamba rotta, eccetera. Credo però che abbia lesioni interne, non solo la frattura di costole, ma emorragie interne. E le ferite d’artiglio alla schiena arrivano al midollo spinale.»
Aenea piange ancora, ma usa un tono di comando. «Voi, Lhomo, A. Bettik, aiutatemi a metterlo nel medibox.»
"Mi spiace" mi giunge, remota, la voce della nave, appena al limite della coscienza "ma i tre scomparti del robochirurgo sono occupati. Il sergente Gregorius è crollato per le lesioni interne e si trova nel terzo scomparto. Tutti e tre i pazienti al momento sono tenuti in vita artificialmente e non possono essere rimossi."
«Maledizione» impreca sottovoce Aenea. «Raul? Amore mio, riesci a sentirmi?»
Sto per rispondere, per dire che mi sento bene, che non c’è da preoccuparsi, ma dalle labbra gonfie e dalla mascella slogata mi esce solo un gemito arruffato.
«Raul» continua Aenea «dobbiamo allontanarci dalle navi della Pax. Ti metteremo in un cubicolo di crio-fuga, amore mio. Ti faremo dormire un poco, in attesa che nel medibox ci sia uno scomparto libero. Riesci a sentirmi, Raul?»
Rinuncio a parlare e trovo la forza per un cenno di assenso. Qualcosa mi penzola sulla fronte, come un berretto umido messo di traverso. Il mio cuoio capelluto.
«Va bene» dice Aenea. Si china più vicino e bisbiglia nell’orecchio che ancora mi resta: «Ti amo, mio caro amico. Tornerai in perfetta forma. Questo lo so!»
Delle mani mi sollevano, mi trasportano, alla fine mi depongono su una superficie dura e fredda. Il dolore infuria, ma è una cosa remota e non riguarda me.
Prima che facciano scorrere il coperchio del cubicolo di crio-fuga, sento distintamente la voce della nave che annuncia con calma: "Quattro navi da guerra della Pax ci intimano l’alt. Dicono che se non ci fermiamo entro dieci minuti, ci distruggeranno. Posso far notare che siamo ad almeno undici ore da qualsiasi possibile punto di traslazione? Tutte e quattro le navi della Pax sono a tiro".
Odo la voce stanca di Aenea: «Continua la rotta verso le coordinate che ti ho dato, Nave. Nessuna risposta alle navi della Pax».
Cerco di sorridere. Un’esperienza che abbiamo già avuto: tentare di battere in velocità, con grandi probabilità contrarie, navi della Pax. Ma c’è una cosa che sto imparando e che mi piacerebbe spiegare a Aenea, se la bocca mi funzionasse e se la mente mi si schiarisse un poco: per quanto a lungo si battano, le probabilità sfavorevoli alla fine hanno sempre la meglio. La considero una rivelazione di scarsa importanza, satori atteso da troppo tempo.
Ma ora il freddo striscia su di me, dentro di me, mi gela il cuore e la mente e le ossa e le viscere. Posso solo augurarmi che si tratti delle bobine di crio-fuga che agiscono più rapidamente di quanto non ricordi dal mio ultimo viaggio. Se si tratta della morte, allora, be’, è la morte. Ma voglio rivedere Aenea.
È il mio ultimo pensiero.
24
"Cado!" Col cuore che mi batteva all’impazzata, mi svegliai in quello che pareva un universo differente.
Galleggiavo, non cadevo. Sulle prime pensai di essere in un oceano, un oceano salato con forte spinta idrostatica, di galleggiare come un feto in un mare color seppia; ma poi capii che non c’era gravità né onde né correnti, che l’elemento non era acqua, ma densa luce color seppia. "La nave?" No, ero in un ambiente ampio, vuoto, oscurato, ma circondato di luce, un vuoto ovoide della larghezza di quindici metri o più, con pareti di pergamena dalle quali vedevo la luce filtrata di un sole ardente e qualcosa di più complesso, una vasta struttura organica che si curvava e si allontanava da tutti i lati. Mossi debolmente le mani e mi toccai il viso, la testa, il corpo, le braccia…
Galleggiavo davvero, trattenuto da una leggera imbracatura fissata a un nastro di lappolite posto sulla ricurva parete interna. Ero scalzo, indossavo solo una morbida veste di cotone che non riconobbi… pigiama? camice d’ospedale?
La pelle del viso era molto sensibile al tatto; sentii sotto le dita nuove rughe che forse erano cicatrici. Non avevo capelli, la pelle del cranio pareva carne viva, era tutta una cicatrice; l’orecchio era ancora al suo posto, ma doleva solo a sfiorarlo. Sulle braccia avevo parecchie deboli cicatrici, visibili però anche nella fioca luce. Tirai su la veste e guardai la gamba che mi ero malamente fratturato tempo prima. Guarita e solida. Mi tastai le costole: sensibili ma intatte. In fin dei conti ero riuscito a trovare posto nel medibox.
Evidentemente espressi ad alta voce quel pensiero, perché una figura che galleggiava accanto a me disse: «Alla fine ci sei entrato, Raul Endymion. Ma una parte delle operazioni chirurgiche è stata eseguita alla vecchia maniera… da me».
Sobbalzai, galleggiai in su contro i nastri di lappolite. Non era la voce di Aenea.
La sagoma scura galleggiò più vicino e riconobbi la forma, i capelli e finalmente la voce. «Rachel» dissi. Avevo la lingua secca, le labbra screpolate. Gracchiai il nome, più che pronunciarlo.
Rachel si avvicinò ancora e mi porse una bottiglia da spremere. Le prime gocce uscirono come sferette rotolanti, gran parte mi schizzò il viso, ma presto capii il trucco e spremetti il liquido direttamente nella bocca aperta. L’acqua era fresca, meravigliosa.
«Da due settimane assumi per endovena liquidi e sostanze nutritive» disse Rachel. «Ma è meglio se bevi direttamente.»
«Due settimane?» Mi guardai intorno. «Aenea? Sta… stanno…»
«Stanno tutti bene» disse Rachel. «Aenea è indaffarata. Ha passato qui con te la maggior parte delle due settimane, ad assisterti, ma quando doveva uscire con Minmun e con gli altri mi faceva stare con te.»
«Minmun?» Scrutai dalla parete trasparente. Una stella luminosa, più piccola del sole di Hyperion. Le incredibili geometrie della struttura si curvavano e si allontanavano dalla sala ovoidale. «Dove mi trovo? Come siamo arrivati qui?»
Rachel ridacchiò. «Rispondo alla seconda domanda, perché in pochi minuti capirai da solo la risposta alla prima. Aenea ha fatto balzare qui la nave. Il padre capitano de Soya, il sergente Gregorius e l’ufficiale Carel Shan conoscevano le coordinate di questo sistema solare, ma erano privi di conoscenza. Però anche il quarto superstite, l’ex prigioniero Hoag Liebler, sapeva dove si nascondeva questo posto.»
Guardai di nuovo dalla parete. La struttura pareva enorme… un traforo di luce e di ombra che da quella sorta di capsula si estendeva in tutte le direzioni. Come potevano nascondere una cosa così grande? E chi la nascondeva?
«Come abbiamo fatto ad arrivare in tempo a un punto di traslazione?» gracchiai; mi schizzai in bocca altri globuli d’acqua. «Credevo che la navi da guerra della Pax stessero per attaccarci.»
«Ci hanno attaccato, infatti. Non saremmo mai potuti giungere a un punto di traslazione Hawking prima che ci distruggessero. Ecco… non è più necessario che tu stia appiccicato alla parete.» Staccò i nastri di lappolite e mi trovai a galleggiare liberamente. Anche a gravità zero, mi sentivo debolissimo.