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Mi appoggiai a un montante di bambù e guardai A. Bettik. «Farebbe meglio a stare attenta» dissi piano all’androide, pronunciando con cura ogni parola «o cominceranno a trattarla come un dio.»

A. Bettik annuì lievemente. «Non pensano che la signorina Aenea sia un dio, signor Endymion.»

«Bene.» Circondai col braccio le spalle dell’androide. «Bene.»

«Tuttavia» proseguì A. Bettik «molti di loro si stanno convincendo, malgrado lei si sforzi di correggerli, che Aenea è Dio.»

17

La sera in cui A. Bettik e io portiamo la notizia dell’arrivo della Pax, Aenea lascia il gruppo di discussione, si avvicina a noi fermi sulla soglia e ascolta attentamente.

«Chim Din dice che il Dalai Lama ha consentito agli agenti della Pax di occupare il vecchio monastero del lago Lontra all’ombra dello Shivling» comunico.

Aenea rimane in silenzio.

«Non avranno il permesso di usare le loro macchine volanti, ma sono liberi di andare a piedi in qualsiasi parte della provincia. In qualsiasi parte!»

Aenea annuisce.

Mi viene voglia di afferrarla e di scuoterla. «Ciò significa che presto sentiranno parlare di te, ragazzina» dico, brusco. «Nel giro di qualche settimana, forse di qualche giorno, qui ci saranno missionari che ficcheranno il naso dappertutto e informeranno l’enclave della Pax.» Lascio uscire il fiato. «Merda, saremo fortunati se saranno semplici missionari e non militari.»

Aenea resta in silenzio ancora un minuto. Poi dice: «Siamo già fortunati che non si tratti della Commissione per la giustizia e la pace».

«Non mi hai ancora spiegato che cos’è questa Commissione.»

Aenea scuote la testa. «Niente che al momento abbia importanza, Raul. Quelli della Pax avranno di sicuro qualche affare qui, altro che… che soffocare l’eterodossia.»

Nei miei primi giorni qui, Aenea mi aveva parlato della lotta in atto nello spazio della Pax e nei dintorni: una rivolta palestinese su Marte, che aveva portato all’evacuazione del pianeta e al bombardamento atomico dall’orbita; ribellioni dei liberi mercanti nei Territori della Fascia di Lambert e su Mare Infinitum; combattimenti continui su Ixion e su decine di altri pianeti. Vettore Rinascimento, con le sue gigantesche basi della Flotta della Pax e con i suoi innumerevoli bar e bordelli, era diventato un nido di vespe di pettegolezzi e di informazioni riservate. E poiché ora le navi in servizio nella Flotta della Pax erano per la maggior parte veicoli classe Arcangelo a propulsione Gideon, le notizie erano di solito vecchie di qualche giorno al massimo.

Una delle voci più interessanti sentite da Aenea prima di venire su T’ien Shan riguardava la diserzione dell’equipaggio di almeno una nave classe Arcangelo: la nave era fuggita nello spazio Ouster e ora faceva rapide incursioni nello spazio della Pax per assalire convogli della Pax Mercatoria, rendeva inutilizzabili i mercantili con equipaggio, anziché distruggerli, e per colpire le task force della Flotta della Pax che si preparavano ad attaccare gli Ouster al di là della Grande Muraglia. Nelle ultime settimane di Aenea e di A. Bettik su Vettore Rinascimento correva la voce che le basi della Flotta in quel sistema solare fossero in pericolo. Altre voci indicavano che numerosi elementi della Flotta erano adesso trattenuti nel sistema di Pacem per difendere il Vaticano. Quale che fosse la verità delle storie riguardanti la nave fuorilegge Raffaele, era incontestabile che la crociata contro gli Ouster promossa da Sua Santità era stata ritardata di anni da quegli attacchi di sorpresa con sganciamento immediato.

Ma mentre aspetto la risposta di Aenea alla notizia dell’arrivo della Pax su T’ien Shan, niente di tutto questo pare importante. Mi domando che cosa faremo ora. Ci teleporteremo sul prossimo pianeta?

Invece di parlare di fuga, Aenea dice: «Il Dalai Lama organizza una cerimonia ufficiale di benvenuto per i funzionari della Pax».

«E allora?» replico dopo un momento.

«Allora dobbiamo assicurarci di ottenere un invito» dice Aenea.

Non credo che mi sia caduta davvero la mascella, ma ho proprio questa impressione.

Aenea mi tocca la spalla. «Ci penserò io. Parlerò a Charles Chi-kyap Kempo e a Kempo Ngha Wang Tashi per assicurarmi che inseriscano anche noi tra gli invitati alla cerimonia.»

Sono letteralmente senza parole. Aenea torna al suo gruppo di persone in attesa, silenziose, serene, nella soffusa luce di lanterna.

Leggo queste parole su micropergamena, ricordo d’averle scritte nei miei ultimi giorni nella scatola di Schrödinger in orbita intorno al pianeta Armaghast, ricordo d’averle scritte nella fretta della certezza che le leggi della probabilità e la meccanica quantistica avrebbero presto rilasciato il cianuro nel mio universo a ciclo chiuso e mi stupisco per l’uso del presente nella narrazione. Poi ricordo la ragione di questa scelta.

Quando mi condannarono a morte nella scatola di Schrödinger, che in realtà non è un parallelepipedo, ma un ovoide, mi concessero di portarmi alcune cose in quell’esilio terminale. I vestiti erano i miei. Per capriccio, mi avevano dato un piccolo tappeto da mettere sul pavimento della cella: un tappeto antico, lungo meno di due metri e largo uno, con un piccolo strappo a una estremità. Una copia del tappeto Hawking del console. Avevo perduto quello vero su Mare Infinitum, molti anni prima, e i particolari di come era tornato in mio possesso saranno illustrati più avanti nel mio racconto. Avevo dato ad A. Bettik il vero tappeto Hawking, ma di sicuro i miei aguzzini si sono divertiti all’idea di adornare la mia cella finale con quella inutile copia di tappeto volante.

Così mi hanno consentito di tenere i miei vestiti, il falso tappeto Hawking e il diskey-diario/ricetrasmittente palmare che avevo preso dalla nave quando ero sceso su T’ien Shan. La trasmittente è stata disattivata (comunque una trasmissione non poteva attraversare il guscio di energia della scatola di Schrödinger e poi non avevo nessuno da chiamare) ma la memoria del diario (l’avevano esaminata attentamente, durante il mio processo d’inquisizione) non era stata toccata. Fu su T’ien Shan che cominciai a prendere annotazioni quotidiane.

Erano queste le annotazioni che avevo richiamato sullo schermo del grafer, mentre mi trovavo nella scatola di Schrödinger; le avevo riviste, prima di scrivere la parte più personale di tutte, ed era stata l’immediatezza di quelle note, credo, a spingermi all’uso del presente. Tutti i miei ricordi di Aenea sono vividi, ma alcuni, richiamati da quei frettolosi appunti al termine di una lunga giornata di lavoro o di avventura su T’ien Shan, erano così vitali da farmi piangere per il rinnovato senso di perdita. Mentre scrivevo le parole, rivivevo quei momenti.

E alcune sue discussioni di gruppo erano registrate parola per parola sul diskey-diario. Le riascolto, nei miei ultimi giorni, solo per udire ancora una volta la sommessa voce di Aenea.

«Parlaci del TecnoNucleo» chiede uno dei monaci, durante l’ora di discussione, la notte dell’arrivo della Pax. «Per favore, parlaci del Nucleo.»

Aenea esita solo un istante, china leggermente la testa come per riordinare i pensieri.

«In un tempo che fu…» inizia. Comincia sempre così le sue lunghe spiegazioni.

«In un tempo che fu, più di mille anni standard fa, prima dell’Egira, prima del Grande Errore del ’38, le sole intelligenze autonome conosciute dall’uomo eravamo noi esseri umani. Pensavamo allora che, se l’uomo avesse progettato un’altra intelligenza, avrebbe realizzato un progetto gigantesco: una grande massa di silicio e di antichi congegni di amplificazione, commutazione e rilevamento detti transistor e chip e circuiti stampati, una macchina con moltissimi circuiti interconnessi, in altre parole una scimmiottatura, se mi consentite l’espressione, del cervello umano nella sua forma e funzione.

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