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"Alt!"

Ci fermammo.

Il gigante parve incerto su cosa fare. "Alla fine la Pax ci ha presi" fu il mio primo pensiero.

Aenea avanzò di un passo. "Sergente Gregorius?" La sua voce giunse anche a me, sulla banda della dermotuta.

L’uomo piegò di lato la testa, ma non abbassò l’arma. Non dubitavo che il fucile funzionasse perfettamente nel vuoto, che sputasse nugoli di fléchettes, o energia, o un raggio di particelle a carica elettrica, o proiettili di piombo o ipercinetici. La bocca del fucile era puntata contro il viso di Aenea.

"Come fai a sapere che mi chiamo…" cominciò il gigante e poi parve vacillare all’indietro. "Sei lei. La ragazza. Quella che abbiamo cercato per tutto questo tempo, per tanti sistemi solari. Aenea."

"Sì" disse Aenea. "Ci sono altri superstiti?"

"Tre" rispose l’uomo che Aenea aveva chiamato Gregorius. Indicò alla sua destra e riuscii appena a scorgere una nera cicatrice sulla roccia nera e i resti anneriti di qualcosa che poteva essere stato un modulo di emergenza per abbandonare una nave in avaria.

"Il padre capitano de Soya è fra loro?" domandò Aenea.

Ricordai il nome. Ricordai la voce di de Soya alla radio della navetta, quando il padre capitano ci aveva trovato, salvato da Nemes e poi lasciato su Bosco Divino, tanto tempo fa, quasi dieci degli anni di Aenea.

"Sì" disse il sergente Gregorius "il capitano è vivo, ma appeso a un filo. Ha riportato gravi ustioni a bordo della povera Raffaele. Se non fosse svenuto, sarebbe ridotto in atomi come la nave; così invece sono riuscito a trascinarlo in una scialuppa di salvataggio. Gli altri due sono feriti, ma il padre capitano sta per morire." Abbassò il fucile e vi si appoggiò stancamente. "Morire della vera morte… non abbiamo culle di risurrezione. Il padre capitano mi ha fatto promettere di disintegrarlo, appena morto. Non vuole risuscitare come un idiota privo di cervello."

Aenea annuì. "Puoi portarmi da lui? Ho bisogno di parlargli."

Gregorius si mise in spalla il pesante fucile e guardò con sospetto A. Bettik e me. "Quei due…"

"Lui è un mio caro amico" disse Aenea, toccando il braccio di A. Bettik. "E questo è l’uomo che amo."

Il gigantesco sergente si limitò ad annuire, si girò e ci precedette per l’ultimo tratto di pendio fino alla vetta e al Tempio dell’Imperatore di Giada.

PARTE TERZA

22

Su Hyperion, a varie centinaia di anni luce, in direzione del centro galattico, dal pianeta T’ien Shan e dagli eventi che vi accadevano e dalle persone coinvolte, un vecchio e dimenticato signore uscì dal sonno senza sogni della crio-fuga a lungo termine e a poco a poco prese coscienza dell’ambiente che lo circondava. L’ambiente era un letto a sospensione senza contatto, un gruppo di moduli per sopravvivenza che lo circondavano e lo annusavano come altrettanti rapaci pasteggianti, innumerevoli tubicini, cavetti e cordoni ombelicali che concludevano il compito di nutrirlo, disintossicargli il sangue, stimolargli i reni, portare antibiotici a combattere le infezioni, controllare i segni vitali e in genere invadere il suo corpo e la sua dignità al fine di riportarlo in vita e mantenervelo.

«Ah, cazzo» gracchiò l’anziano signore. «Per i vecchi allo stadio terminale, svegliarsi è un maledetto fottuto merdoso incubo fotticadaveri. Darei un milione di marchi per scendere semplicemente dal letto e farmi una bella pisciata.»

«Buon giorno a lei, signor Sileno» disse l’androide femmina che controllava sul biomonitor sospeso i segni vitali del vecchio poeta. «Oggi pare di buon umore.»

«’fanculo tutte le puttanelle dalla pelle azzurra» biascicò Martin Sileno. «Dove sono i miei denti?»

«Ancora non le sono ricresciuti, signor Sileno» disse l’androide. Si chiamava A. Raddik e aveva poco più di tre secoli, meno di un terzo degli anni della vecchissima mummia a mezz’aria nel letto a sospensione.

«Non ne avrò bisogno» brontolò il vecchio. «Non starò merdosamente sveglio a lungo. Da quanto sono sotto?»

«Due anni, tre mesi e otto giorni» rispose A. Raddik.

Martin Sileno scrutò il cielo sopra la torre aperta. Il soffitto di tela del piano più alto della torre di pietra era stato arrotolato. Cielo turchese scuro. La bassa luce del primo mattino o della sera avanzata. Lo scintillio e il tremolio di ragnatelidi radianti che ancora non avevano acceso le loro fragili ali da farfalla larghe mezzo metro.

«Stagione?» domandò stentatamente Sileno.

«Tarda primavera» rispose l’androide. Altri servitori dalla pelle azzurra si muovevano dentro e fuori della stanza circolare, impegnati in chissà quali incarichi. Solo A. Raddik controllava gli ultimi stadi della ripresa dalla crio-fuga del vecchio poeta.

«Da quanto tempo se ne sono andati?» domandò Sileno. Non aveva bisogno di precisare a chi si riferiva. A. Raddik sapeva che il vecchio poeta si riferiva non solo a Raul Endymion, l’ultimo visitatore della loro città universitaria abbandonata, ma anche alla bambina Aenea, che Sileno aveva conosciuto tre secoli prima e che ancora sperava di rivedere un giorno o l’altro.

«Nove anni, otto mesi, una settimana e un giorno» rispose. «Tutti terrestri standard, ovviamente.»

«Hggrhh» grugnì il vecchio poeta. Continuò a scrutare il cielo. La luce del sole, filtrata dal telone a est, colpiva la parete sud della torre di pietra; il vecchio poeta non ne era colpito, ma aveva le lacrime agli occhi per la luminosità. «Sono diventato una creatura delle tenebre» brontolò. «Come Dracula. Ogni pochi anni mi alzo dalla fottuta bara per controllare il mondo dei viventi.»

«Sì, signor Sileno» convenne A. Raddik, cambiando posizione a varie manopole sul pannello di comando.

«Chiudi il becco, puttanaccia» disse il vecchio poeta.

«Sì, signor Sileno.»

Il vecchio gemette. «Fra quanto posso mettermi sulla sedia a cuscino d’aria, Raddik?»

La glabra androide sporse le labbra. «Ancora due giorni, signor Sileno. Forse due e mezzo.»

«Ah, inferno e dannazione» borbottò Martin Sileno. «Il ricupero diventa ogni volta più lento. Uno di questi giorni non mi sveglierò proprio, il macchinario di crio-fuga non mi riporterà indietro.»

«Sì, signor Sileno» convenne l’androide. «Ogni sonno freddo è più gravoso per il suo sistema. L’apparecchiatura di rianimazione e di supporto vita è piuttosto vecchia. Lei non sopravviverà a molti altri risvegli, è vero.»

«Oh, sta’ zitta» ringhiò Martin Sileno. «Sei una vecchia puttana morbosa e deprimente.»

«Sì, signor Sileno.»

«Da quanto tempo sei con me, Raddik?»

«Duecentoquaratuno anni, undici mesi, diciannove giorni. Standard.»

«E non hai ancora imparato a preparare una tazza di caffè decente.»

«No, signor Sileno.»

«Però hai messo il bricco sul fornello, giusto?»

«Sì, signor Sileno. Secondo i vostri ordini permanenti.»

«Sì, merda» disse il poeta.

«Ma per almeno altre dodici ore, signor Sileno, lei non riuscirà ad assumere oralmente liquidi.»

«Arrrggghhh!» disse il poeta.

«Sì, signor Sileno.»

Dopo parecchi minuti in cui parve che fosse scivolato di nuovo nel sonno, Martin Sileno disse: «Notizie dal ragazzo o dalla bambina?»

«No, signore» rispose A. Raddik. «Ma naturalmente al giorno d’oggi abbiamo accesso solo alla rete di trasmissioni della Pax nell’ambito del nostro sistema solare. E la maggior parte dei loro nuovi cifrari è molto buona.»

«Voci su quei due?»

«Nessuna di cui siamo sicuri, signor Sileno. La situazione è molto agitata, per la Pax — ribellioni in molti sistemi solari, guai con la crociata contro gli Ouster, un continuo movimento di navi da guerra entro i confini della Pax — e poi si parla del contagio virale, con massima circospezione e segretezza.»

«Il contagio» ripeté Martin Sileno e sorrise, mostrando gengive anziché denti. «La bambina, direi.»

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