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Aenea era morta.

La nave torcia traslò in stato quantico. Quando mi svegliai, ero in questa cella della morte congegnata come scatola del gatto di Schrödinger.

Non aveva importanza. Aenea era morta.

32

Nella mia cella non c’era orologio né calendario. Non so per quanti giorni, settimane o mesi standard rimasi nella follia. Forse trascorsi molti giorni senza dormire o dormii per settimane filate, non so. Difficile, o impossibile, dirlo.

Ma a un certo punto, poiché il cianuro e le leggi della probabilità quantistica continuavano a risparmiarmi di giorno in giorno, di ora in ora, di minuto in minuto, cominciai questo racconto. Non so perché i miei carcerieri mi diedero un grafer a lavagna e uno stilo e la possibilità di stampare qualche pagina su micropergamena riciclata. Forse pensavano che il condannato a morte scrivesse la propria confessione o usasse lo stilo del grafer per infierire inutilmente contro giudici e carcerieri. O forse che scrivesse dei propri peccati e dei propri torti, delle gioie e della perdita di gioie, come ulteriore forma di punizione. E forse in un certo modo lo era.

Ma fu anche la mia salvezza. All’inizio mi salvò dalla follia e dal suicidio per dolore e rimorso incontrollabili. Poi salvò i miei ricordi di Aenea, li trasse dalla palude d’orrore per la sua orribile morte e li portò sul più solido terreno dei giorni trascorsi insieme, della sua gioia di vivere, della sua missione, dei nostri viaggi, del suo complesso ma terribilmente schietto messaggio a me e a tutta la specie umana. Alla fine mi salvò semplicemente la vita.

Ben presto, iniziato il racconto, scoprii di poter spartire i pensieri e le azioni di ciascuno dei partecipanti alla nostra lunga odissea e alla nostra lotta fallita. Era una conseguenza di ciò che Aenea mi aveva insegnato con le discussioni e la comunione: l’apprendimento del linguaggio dei morti e del linguaggio dei vivi. Incontravo ancora i morti, nel sonno e nelle fantasticherie da sveglio: mia madre mi parlò spesso; e assaggiai la sofferenza e la saggezza di innumerevoli altri che erano vissuti e morti molto tempo fa; ma non erano quelle anime perdute a ossessionarmi ora, erano quelle con una visione parallela delle mie esperienze in tutti gli anni in cui avevo conosciuto Aenea.

Mai, durante l’attesa della morte nella scatola di Schrödinger, pensai di udire i pensieri attuali dei viventi al di là della mia prigione (presumevo che il guscio di energia fusa dell’uovo orbitale in qualche modo lo impedisse) ma ben presto imparai come escludere il clamore di tutte quelle innumerevoli voci più antiche risonanti nel Vuoto che lega e concentrarmi sui ricordi di coloro, sia morti sia ancora presumibilmente vivi, che avevano fatto parte della storia di Aenea. Così entrai nei pensieri e nei motivi (alcuni, almeno) di esseri umani così lontani dal mio modo di pensare da essere alla lettera creature aliene: i cardinali Simon Augustino Lourdusamy e John Domenico Mustafa, Lenar Hoyt nelle sue incarnazioni di papa Giulio e di papa Urbano XVI, mercanti della Pax Mercatoria come Kenzo Isozaki e Anna Pelli Cognani, preti e militari come padre de Soya, il sergente Gregorius, il capitano Marget Wu, il comandante in seconda Hoagan Liebler. Alcuni personaggi del mio racconto sono presenti nel Vuoto che lega soprattutto come cicatrici, buchi, vuoti (i cloni Nemes sono vuoti del genere, al pari del consigliere Albedo e di altre entità del Nucleo) ma riuscii a ripercorrere alcuni movimenti e azioni di costoro semplicemente grazie allo spostamento di quell’assenza nella matrice di emozione senziente che è il Vuoto che lega, un po’ come si scorgerebbe il contorno di un uomo invisibile che cammini sotto una pioggia a dirotto. Così, in combinazione con l’ascolto dei lievi mormorii dei morti umani, potei ricostruire il massacro degli innocenti Chitchatuk su Sol Draconis Septem a opera di Rhadamanth Nemes e udire i sibili di rabbia e le micidiali azioni di Scilla, Gige, Briareo e Nemes su Vitus-Gray-Balianus B. Ma per quanto fossero spiacevoli e mi disorientassero, queste discese nel vuoto morale e nell’incubo mentale erano bilanciate dalla possibilità di gustare ancora il calore di amici come Dem Loa, Dem Ria, padre Glauco, Het Masteen, A. Bettik e tutti gli altri. Trovai solo nei miei ricordi molti di questi partecipanti al mio racconto: persone meravigliose come Lhomo Dondrub, visto per l’ultima volta mentre volava su ali di pura luce nell’eroica e disperata battaglia contro le navi da guerra della Pax; e Rachel, nella seconda di varie vite che era destinata a riempire d’avventure; e la regale Dorje Phamo; e il saggio giovane Dalai Lama. In questo modo usavo il Vuoto che lega per ascoltare la mia stessa voce, per chiarire la memoria al di là della capacità e della chiarezza della memoria, e in questo senso mi vidi spesso come personaggio minore del mio stesso racconto, un compagno non geniale, un ribelle più che un capo, che spesso non faceva domande quando avrebbe dovuto o accettava risposte fin troppo inadeguate. Ma vidi anche il goffo Raul Endymion del mio racconto come un uomo che scopriva l’amore per una persona da lui attesa tutta la vita, e in questo senso la sua inclinazione a seguire senza domande era spesso bilanciata dalla disponibilità a dare all’istante la vita per la sua cara amica.

Anche se so oltre ogni dubbio che Aenea è morta, non cercai mai la sua voce fra il coro di quelli che parlavano il linguaggio dei morti. Anzi, percepii la sua presenza nel Vuoto che lega, percepii il suo tocco nella mente e nel cuore di tutte le brave persone che incapparono nella nostra odissea o la cui vita fu cambiata per sempre nella nostra lunga lotta contro la Pax. Mentre imparavo ad attenuare l’inanimato clamore e a cogliere voci specifiche dal coro dei morti, mi resi conto che spesso quelle risonanze umane nel Vuoto erano visualizzate da me come stelle, alcune fioche ma visibili, se si sapeva dove guardare, altre luminose come supernovae, altre ancora in combinazione binaria con altre ex anime viventi oppure fissate in eterno in una costellazione di amore e di rapporto con individui specifici, altre, come Mustafa e Lourdusamy e Hoyt, quasi consumate e fatte implodere dalla terribile gravità della loro ambizione o avidità o sete di potere, quasi prive del loro splendore umano mentre collassavano in buchi neri dello spirito.

Ma Aenea non era una di queste stelle. Aenea era come la luce del sole che ci aveva circondato durante una passeggiata in un caldo giorno di primavera sui prati sopra Taliesin West: costante, soffusa, proveniente da una singola fonte eppure in grado di riscaldare tutto e tutti intorno a noi, una fonte di vita e di energia. Così, quando giunge l’inverno o cade la notte, e l’assenza di luce porta buio e gelo, così noi aspettiamo la primavera e il mattino.

Ma ormai non ci sarebbe stato nessun mattino per Aenea, nessuna risurrezione per lei o per il nostro amore. Il grande potere del suo messaggio è che la risurrezione modello Pax era una menzogna, foriera di sterilità come le iniezioni obbligatorie per il controllo delle nascite. In un universo finito di immortali in potenza non c’è posto per i bambini. L’universo della Pax era ordinato e statico, immutabile e sterile. I bambini portano il caos e l’affollamento, rappresentano in potenza quel futuro che per la Pax era anatema.

Preso da questi pensieri e da quello sull’ultimo dono di Aenea, l’antidoto al meccanismo per il controllo delle nascite impiantato dalla Pax dentro di me, mi domandai se il gesto non fosse metaforico. Mi augurai che Aenea non avesse voluto suggerirmi di usarlo alla lettera, di trovarmi un altro amore, una moglie, di avere figli con un’altra. In una delle nostre numerose conversazioni avevamo affrontato una volta l’argomento — ricordo che avvenne mentre sedevamo nel vestibolo del suo rifugio nel deserto presso Taliesin, mentre il vento della sera ci portava profumo di yucca e di primule — e avevamo notato la bizzarra elasticità del cuore umano nel trovare nuove relazioni, nuove persone con cui condividere la vita, nuovi potenziali. Ma mi auguro che il dono della fertilità offertomi da Aenea in quegli ultimi minuti trascorsi insieme in San Pietro fosse in realtà una metafora per il più grande dono che lei aveva già fatto alla specie umana, l’opzione per il caos e l’affollamento e meravigliose, impreviste possibilità. Se il dono era davvero un suggerimento di trovare un nuovo amore, di avere figli da un’altra donna, allora Aenea non mi aveva conosciuto affatto. Nella stesura di questo racconto ho visto fin troppo bene dagli occhi di molti altri che Raul Endymion era un tipo abbastanza simpatico, fidato, goffamente coraggioso all’occasione, ma non rinomato per intuizione o intelligenza. Ma ero abbastanza intelligente e abbastanza intuitivo, almeno nel caso della mia stessa anima, per sapere con certezza che quell’unico amore mi sarebbe bastato per tutta la vita; e riuscivo a capire, man mano che nella mia cella della morte i giorni e le settimane e quasi sicuramente i mesi trascorrevano senza arrivare alla morte, che se per miracolo fossi tornato nell’universo dei vivi, avrei trovato di nuovo gioia e allegria e amicizia, ma nemmeno una pallida ombra dell’amore che avevo provato. Niente figli. No.

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