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«Io sono quella mistura. Porto in me la capacità genetica di accedere al Vuoto che lega dal TecnoNucleo e la troppo raramente usata capacità umana di percepire l’universo tramite l’empatia. Per il meglio o per il peggio, chi berrà il mio sangue non vedrà mai più come prima il mondo o l’universo.»

Mentre dice queste parole, si alza in ginocchio sulla stuoia tatami. Theo porta un panno di lino bianco. Rachel riempie da un vaso di vino rosso sette grandi coppe. Aenea prende dal giubbotto un piccolo involto — lo riconosco, un medikit della nave — ne toglie un bisturi sterilizzato e un tampone antisettico. Esita prima di usare il bisturi e con lo sguardo passa in rassegna la folla. Non c’è il minimo suono, come se i cento e passa presenti trattenessero il fiato.

«Non avrete garanzia di felicità, saggezza o lunga vita, se berrete di me stasera» dice Aenea, molto piano. «Non c’è nirvana. Non c’è salvezza. Non c’è vita dopo la morte. Non c’è rinascita. C’è solo immensa conoscenza, tanto del cuore quanto della mente, e il potenziale per grandi scoperte, grandi avventure e una garanzia di maggiori sofferenze e di terrori che compensano tanta parte della nostra breve vita.»

Guarda di viso in viso, sorride nell’incrociare lo sguardo del giovanissimo Dalai Lama. «Alcuni di voi» riprende «hanno partecipato a tutte le nostre riunioni nell’ultimo anno. Vi ho detto ciò che so su questo: apprendere il linguaggio dei morti, apprendere il linguaggio dei vivi, ascoltare la musica delle sfere e apprendere come muovere il primo passo.»

Guarda direttamente me. «Alcuni di voi hanno ascoltato solo alcune discussioni. Non eravate qui, quando ho parlato della vera funzione del crucimorfo della Chiesa o della vera identità dello Shrike. Non avete ascoltato i particolari dell’apprendere il linguaggio dei morti né gli altri fardelli dell’ingresso nel Vuoto che lega. A quelli di voi che dubitano e che esitano, consiglio di aspettare. Agli altri ripeto: non sono un messia, ma un maestro. Se ciò che vi ho insegnato in questi mesi vi sembra verità e se volete correre questo rischio, bevete di me stanotte. State attenti: il DNA che ci concede di percepire l’ambiente Vuoto che lega non può coesistere col crucimorfo. Quel parassita avvizzirà e morirà entro ventiquattr’ore da quando avrete bevuto il sangue. Non crescerà mai più in voi. Se cercate risurrezione attraverso il crucimorfo, non bevete il sangue del mio corpo in questo vino.

«E state attenti: diverrete, come me, nemici della Pax, disprezzati e perseguitati. Il vostro sangue sarà contagioso. Coloro con cui lo dividerete, coloro che sceglieranno di trovare il Vuoto che lega mediante la condivisione del vostro DNA, saranno a loro volta disprezzati.

«E state attenti, infine: una volta bevuto questo vino, avrete figli con la capacità di entrare nel Vuoto che lega. Per il meglio o per il peggio, i vostri figli e i loro figli nasceranno conoscendo il linguaggio dei morti, il linguaggio dei vivi, sentiranno la musica delle sfere e sapranno di poter compiere il primo passo nel Vuoto che lega.»

Con la lama affilata del bisturi Aenea si tocca il dito. Una gocciolina di sangue è visibile nella luce di lanterna. Rachel regge una coppa, la goccia di sangue cade nel vino. L’operazione è ripetuta per la coppa successiva, finché tutte e sette non sono state… contaminate? transustanziate? La mente mi vacilla. Il cuore mi batte come allarmato. Mi pare una selvaggia parodia della santa comunione della Chiesa cattolica. È forse… la mia giovane amica, la mia tenera amante, la mia amata… è forse impazzita? È davvero convinta di essere un messia? No, ha già detto di non essere un messia. E io, credo io che sarò trasformato per sempre, bevendo del vino che è, una parte per milione, il sangue della mia amata? Non so. Non capisco.

Circa metà dei presenti si mette in fila per bere un sorso da una delle grandi coppe. "Calici?" penso. "È blasfemia. Non è giusto. O sì?" Un sorso è tutto ciò che prendono, poi tornano al proprio posto sui tatami. Nessuno pare particolarmente rinvigorito o illuminato. Nessun paio di raggi di luce risplende dalla fronte di alcuno, dopo che ha condiviso il vino. Nessuno levita a mezz’aria, nessuno parla tutte le lingue. Ciascuno beve un sorso e torna a sedersi.

Mi rendo conto di perdere tempo, di cercare lo sguardo di Aenea. Ho tante di quelle domande… Dimessamente, sentendomi un traditore nei confronti di una persona di cui dovrei fidarmi senza esitazioni, mi accodo alla fila sempre più corta.

Aenea mi vede. Alza brevemente la mano, palma verso di me. Il senso è chiaro: "Non ora, Raul. Non ancora". Esito un altro istante, irresoluto, nauseato al pensiero che questi altri, questi estranei, entrino in intimità con la mia amata, mentre io non posso. Poi, col cuore che batte forte e il viso tutto rosso, torno a sedere sulla mia stuoia.

Non c’è una conclusione ufficiale della serata. Le persone cominciano ad andare via, due tre per volta. Una coppia — lei ha bevuto il vino, lui no — se ne va mano nella mano, come se niente fosse cambiato. Forse niente è cambiato davvero. Forse la comunione rituale cui ho appena assistito è semplice metafora e simbolismo, o autosuggestione e autoipnosi. Forse coloro che vorranno con tutte le forze percepire una cosa definita Vuoto che lega avranno una esperienza interiore che li convincerà che sia accaduto. Forse sono tutte stronzate.

Mi strofino la fronte. Ho un tale mal di testa! Per fortuna non ho bevuto il vino, mi dico. Il vino a volte mi dà l’emicrania. Ridacchio e per un momento mi sento malato e vuoto, lasciato indietro.

Rachel dice: «Non dimenticate che l’ultima pietra sarà sistemata sulla passerella domani a mezzogiorno. Ci sarà una festicciola nella piattaforma di meditazione superiore! Ciascuno porti i propri rinfreschi».

Così termina la serata. Torno su, alla piattaforma per dormire che divido con Aenea; sento una mistura di euforia, aspettativa, rimpianto, imbarazzo, eccitazione e un sordo mal di testa. Ammetto con me stesso di non avere capito nemmeno metà delle spiegazioni di Aenea, ma vado via con un vago senso di disappunto e di inadeguatezza. Sono sicuro, per esempio, che l’ultima cena di Gesù Cristo non si è conclusa con qualcuno che ricordava agli altri di portare i propri rinfreschi alla festicciola sulla piattaforma superiore.

Ridacchio e poi ingoio la risatina. Ultima cena. Le due parole hanno un suono terribile. Il cuore riprende a battermi forte e il mal di testa peggiora. Non è davvero il modo di entrare nella stanza da letto della propria amata!

L’aria gelida sulla passerella più in alto mi schiarisce un po’ la mente. L’Oracolo è appena una falce sulle torreggianti nubi cumuliformi a est. Le stelle paiono fredde, stanotte.

Mentre sto per entrare nella stanza che divido con Aenea e accendere la lanterna, il cielo esplode all’improvviso.

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Dai livelli inferiori salirono tutti, tutti quelli che erano rimasti nel Tempio a mezz’aria anche dopo avere terminato la maggior parte del lavoro: Aenea e A. Bettik, Rachel e Theo, George e Jigme, Kuku e Kay, Chim Din e Gyalo Thondup, Lhomo e Labsang, Kim Byung-Soon e Vikj Grosely, Kenshiro e Haruyuki, l’abate capo Kempo Ngha Wang Tashi e il suo signore, il giovane Dalai Lama, Voytek Majer e Janusz Kurtyka, l’accigliato Rimsi Kyipup e il sorridente Changchi Kenchung, la Dorje Phamo e Carl Linga William Eiheji. Aenea venne al mio fianco e infilò la mano nella mia: guardammo il cielo, in un silenzio pervaso di timore reverenziale.

Sono sorpreso che non restassimo tutti accecati dallo spettacolo luminoso in atto lassù dove un attimo prima c’erano le stelle: grandi fiori di luce bianca, lampeggi di giallo sulfureo, ardenti striature rosse, molto più luminose della coda di una cometa o della scia di un meteorite, intersecate di sfregi blu, verde, bianco, giallo, ciascuno chiaro e dritto come graffio di diamante su vetro; poi improvvise vampate arancione che parevano ripiegarsi su se stesse in silenziose implosioni, seguite da altri lampeggi bianchi e da una nuova serie di sfregi rossi. Tutto accadeva in silenzio, ma la violenza della luce, da sola, ci faceva venire voglia di coprirci le orecchie e di rannicchiarci in un luogo riparato.

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