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Padre Duré sospira. «Nessuna vita è lunga abbastanza per chi vuole creare, Raul. O per chi vuole semplicemente capire se stesso e la propria vita. Forse è la maledizione di appartenere alla specie umana, ma è anche una benedizione.»

«In che senso?» domando. Ma prima che Duré possa rispondermi, padre de Soya e alcuni abitanti del villaggio ci raggiungono e c’è un brusio di discussioni e di saluti e di inviti a tornare. Guardo la sacca nera: il prete vi ha messo dell’altro, oltre all’urna con le ceneri di Aenea.

«Una tonaca pulita» dice de Soya, vedendo la direzione del mio sguardo. «Biancheria di ricambio. Calzini. Alcune pesche. La mia Bibbia e il messale e l’occorrente per dire messa. Non so quando tornerò.» Indica la gente che si affolla intorno a noi. «Ho dimenticato come avvenga esattamente. Occorre più spazio?»

«Non credo. Lei e io dovremmo essere fisicamente a contatto, forse. Almeno per il primo tentativo.» Mi giro, stringo la mano a Kee e a padre Duré. «Grazie di tutto.»

Kee sorride e arretra come se stessi per sollevarmi sui gas di scarico di un razzo e lui non volesse bruciarsi. Padre Duré mi stringe la spalla un’ultima volta. «Penso che ci rivedremo, Raul Endymion» dice. «Ma forse non prima di un paio d’anni.»

Non capisco, ho appena promesso di riportare padre de Soya nel giro di qualche giorno. Ma annuisco come se avessi capito, stringo di nuovo la mano al gesuita e mi scosto.

«Dobbiamo tenerci per mano?» dice de Soya.

Metto la mano sulla spalla del prete, proprio come ha fatto Duré un attimo prima nei miei riguardi, e controllo che il grafer sia appeso alla cinghia. «Così dovrebbe andare bene.»

«Omofobia?» dice de Soya, con un sorriso birichino.

«Riluttanza a fare la figura da sciocco più spesso del necessario» replico. Chiudo gli occhi, quasi sicuro che stavolta la musica delle sfere non sarà lì, quasi sicuro di avere dimenticato completamente come muovere quel passo nel Vuoto. "Se non altro" penso "qui il caffè e la conversazione sono buoni, se devo restarci per sempre."

La luce bianca ci circonda e ci racchiude.

34

Mi ero fatto l’idea che padre de Soya e io saremmo emersi nella città abbandonata di Endymion, forse proprio accanto alla torre del vecchio poeta; ma quando, battendo le palpebre, si estinse il bagliore del Vuoto, ci trovammo nel buio fitto, in una pianura ondulata, col vento che sibilava nell’erba che a me arrivava al ginocchio e al prete a mezza coscia.

«Ce l’abbiamo fatta?» domandò con entusiasmo il gesuita. «Siamo su Hyperion? Non mi pare di riconoscerlo, ma a quel tempo vidi solo alcune zone del continente settentrionale e da allora sono trascorsi più di undici anni. È proprio Hyperion? La gravità sembra quella che ricordo. L’aria è… più dolce.»

Per qualche istante lasciai che gli occhi si abituassero alla notte. «Siamo proprio su Hyperion» dissi poi. «Vede le costellazioni? Quella là è il Cigno. Laggiù ci sono i Gemelli. Quell’altra in realtà si chiama Acquario, ma nonna diceva a noi bambini che era il Carro di Raul, dal carretto che mi tiravo sempre dietro.» Inspirai a fondo e guardai di nuovo la pianura ondulata. «Questo era uno dei nostri punti di accampamento preferiti» continuai. «Della nostra carovana di nomadi. Quando ero bambino.» Piegai il ginocchio per esaminare il terreno, alla scarsa luce delle stelle. «Stessi segni di pneumatici. Vecchi di qualche settimana. Le carovane passano ancora da queste parti, immagino.»

Con un fruscio di tonaca nell’erba, de Soya andava avanti e indietro, agitato come un predatore notturno in gabbia. «A che distanza siamo?» domandò. «Possiamo raggiungere a piedi la residenza di Martin Sileno?»

«Circa quattrocento chilometri. Ci troviamo nella parte orientale della brughiera, a sud del Becco. Zio Martin sta nelle alture pedemontane dell’altopiano punta d’Ala.» Dentro di me, trasalii: per indicare il vecchio poeta avevo usato l’affettuoso nomignolo tipico di Aenea.

«Stia dove vuole» disse con impazienza padre de Soya. «Da quale parte andiamo?»

Era pronto a iniziare la camminata, ma lo fermai, mettendogli di nuovo la mano sulla spalla. «Non credo sia necessario andare a piedi» dissi piano. Qualcosa nascondeva le stelle a sudest: malgrado il sibilo del vento, udivo il ronzio acuto di turboventilatori. Qualche secondo dopo, scorgemmo le palpitanti luci di navigazione, rossa e verde, di uno skimmer che girava a nord sulla prateria e oscurava il Cigno.

«Buon segno?» domandò de Soya. Sentii che si irrigidiva un poco.

Scrollai le spalle. «Quando vivevo qui, non sarebbe stato buon segno» risposi. «Quasi tutti gli skimmer appartenevano alla Pax. Al servizio di sicurezza della Pax, per essere esatti.»

Aspettammo ancora solo qualche secondo. Lo skimmer atterrò, il ronzio delle turbine si affievolì e cessò, la bolla anteriore di sinistra girò sui cardini e si aprì. Ne uscì un fiotto di luce. Vidi la pelle azzurra, gli occhi azzurri, il moncherino del braccio sinistro, la destra alzata in segno di saluto.

«Buon segno» dissi.

«Come sta?» domandai ad A. Bettik, mentre volavamo in direzione sudest, a trecento metri di quota. Dallo schiarirsi dell’orizzonte sopra l’altopiano punta d’Ala calcolai che mancasse un’ora all’alba.

«Sta per morire» rispose l’androide. Per un poco, allora, volammo in silenzio.

A. Bettik mi era sembrato contento di rivedermi, anche se, quando l’avevo abbracciato, aveva mostrato un certo impaccio. Gli androidi non erano mai a loro agio per simili manifestazioni emotive nei loro riguardi da parte degli esseri umani per il cui servizio erano stati biocostruiti. Nel breve tempo del volo, gli rivolsi quante più domande potevo.

Mi espresse subito il suo cordoglio per la morte di Aenea e questo mi diede l’opportunità di rivolgergli la domanda che più mi tormentava: «Hai sentito il Momento Condiviso?».

«Non esattamente, signor Endymion» rispose A. Bettik, cosa che non mi chiarì nulla. Ma poi A. Bettik ci aggiornò sugli ultimi tredici mesi standard su Hyperion.

Martin Sileno era stato, come Aenea già sapeva, il trasponder relè del Momento Condiviso. Tutti, sul mio pianeta natale, l’avevano sentito. Per la maggior parte, cristiani rinati e militari della Pax avevano disertato immediatamente, avevano cercato la comunione per liberarsi del parassita crucimorfo ed evitato i pochi lealisti della Pax. Zio Martin aveva messo a disposizione il vino e il sangue, l’uno e l’altro dalla sua provvista personale. Da tempo ammassava il vino e conservava decilitri del proprio sangue, fin dal tempo della sua comunione con la decenne Aenea, duecentocinquant’anni prima.

I pochi lealisti della Pax erano fuggiti nelle tre astronavi rimaste e la città da loro occupata per ultima, Port Romance, era stata liberata quattro mesi dopo il Momento. Dal suo ininterrotto ritiro nella città universitaria di Endymion, zio Martin aveva cominciato a trasmettere vecchi ologrammi di Aenea, una Aenea giovanissima come non l’avevo mai conosciuta, che spiegava come usare il nuovo accesso al Vuoto che lega e lanciava appelli contro la violenza. I milioni di indigeni e di ex fedeli della Pax, che cominciavano a scoprire la voce dei propri morti e il linguaggio dei vivi, non contravvennero ai suoi desideri.

A. Bettik mi disse pure che adesso in orbita c’era solo una gigantesca nave-albero dei templari, la Sequoia sempervirens, comandata dalla Vera Voce dell’Albero Stella Ket Rosteen, con a bordo parecchi nostri amici, compresi Rachel, Theo, la Dorje Phamo, il Dalai Lama, gli Ouster Navson Hamnim e Sian Quintana Ka’an. Anche George Tsarong e Jigme Norbu erano sulla nave. Rosteen aveva chiesto al vecchio poeta il permesso di atterrare per due giorni, disse A. Bettik, ma Sileno aveva rifiutato: non voleva vedere né loro né altri, finché non fossi arrivato io.

«Io?» ripetei, sorpreso. «Martin Sileno sapeva che sarei arrivato?»

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