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Il sistema solare di Pacem era affollato di navi commerciali, di navi da guerra della Flotta, di estesi habitat come il toroide della Pax Mercatoria, di basi militari e di posti d’ascolto della Pax, di asteroidi raggruppati e terraformati come Castel Gandolfo, di economiche città residenziali per i milioni di persone ansiose di stare vicino al centro di potere dell’umanità ma troppo povere per pagare le tariffe esorbitanti di Pacem e della più alta concentrazione di veicoli planetari privati nell’universo conosciuto. Così Kenzo Isozaki, PFE nonché presidente del consiglio della Lega pancapitalista delle organizzazioni commerciali interstellari cattoliche indipendenti, quando volle essere completamente solo, dovette requisire una nave privata e consumare combustibile, ad alta gravità, per trentadue ore nell’anello esterno di tenebre lontano dal sole di Pacem.

Anche la scelta della nave era stata un problema. La Pax Mercatoria manteneva una piccola flotta di costose navette planetarie di rappresentanza, ma Isozaki doveva presumere che, malgrado i migliori tentativi per eliminare le "cimici", quelle navette fossero tutte compromesse. Per l’incontro in programma aveva allora pensato di far deviare uno dei carghi della Pax Mercatoria che seguivano le rotte commerciali fra i grappoli orbitali, ma non riteneva impossibile che i suoi nemici — il Vaticano, il Sant’Uffizio, i servizi segreti della Flotta della Pax, l’Opus Dei, i rivali all’interno della stessa Pax Mercatoria, innumerevoli altri — avessero piazzato microspie in ogni nave della flotta mercantile.

Alla fine si era travestito, era andato nell’area portuale pubblica del toroide, aveva acquistato su due piedi un antico "grillo" per gli asteroidi e aveva ordinato alla IA illegale del suo comlog di pilotare il veicolo al di là della zona controllata. Durante il viaggio, il suo veicolo subì sei volte la richiesta di identificazione da parte di pattuglie e di stazioni della sicurezza della Pax; ma il grillo aveva la licenza, era diretto in una zona dove esistevano asteroidi — sfruttati e ridotti a colabrodo dalle compagnie minerarie, certo, ma pur sempre una destinazione legittima per un cercatore disperato — e fu fatto passare senza altri controlli.

Isozaki trovò teatrale tutta quella storia e uno spreco del suo tempo prezioso. Avrebbe incontrato il suo contatto nell’ufficio sul toroide, se il contatto fosse stato d’accordo. Il contatto non era stato d’accordo. Isozaki riconobbe, suo malgrado, che pur di avere quell’incontro sarebbe andato strisciando fino su Aldebaran.

Trentadue ore dopo aver lasciato il toroide, il grillo spense il campo interno di contenimento, prosciugò la vasca antigravità e richiamò dal sonno il passeggero. Il computer del veicolo era troppo stupido per fare altro che comunicare a Isozaki le coordinate e le letture sugli asteroidi locali, ma l’illegale interfaccia IA del comlog analizzò la zona alla ricerca di navi, a motore spento o in funzione, e dichiarò che quella sfera del sistema di Pacem era deserta.

«Allora come viene qui, se non ci sono navi?» borbottò Isozaki.

"Non c’è altro modo, se non per nave" disse la IA. "A meno che non sia già qui, cosa che pare poco attendibile, dal momento che…"

«Silenzio» ordinò Kenzo Isozaki. Rimase seduto nella penombra della bolla di comando del grillo, nella puzza di olio lubrificante, e osservò l’asteroide a mezzo chilometro di distanza. Grillo e asteroide avevano pareggiato la velocità di rotazione, così pareva che a girare fosse il ben noto campo stellare del sistema di Pacem al di là del pianetino roccioso pesantemente sfruttato e butterato di crateri. A parte quel sasso spaziale, non c’era niente, tranne vuoto assoluto, radiazioni dure e gelido silenzio.

All’improvviso qualcuno bussò alla paratia esterna del portello stagno.

8

Nel momento in cui erano in corso tutti questi movimenti di truppe, nello stesso momento in cui la grande armata di astronavi nero metallina provocava lacerazioni nel continuum spaziotemporale del cosmo, nel preciso momento in cui il Grande Inquisitore della Chiesa veniva mandato a fare i bagagli per recarsi sul pianeta Marte infestato dallo Shrike e in cui il PFE della Pax Mercatoria si recava da solo a un appuntamento spaziale segreto con un interlocutore non umano, io giacevo inerme in un letto, con un terribile dolore alla schiena e al ventre.

Il dolore è una cosa interessante e sconcertante. Poche cose nella vita focalizzano la nostra attenzione in modo così completo e terribile, poche cose sono più noiose, se raccontate o lette.

Quel dolore mi assorbiva in modo completo. Ero stupito per la sua implacabilità, per il suo dominio sulla mente. Nelle ore di estrema sofferenza che avevo già sopportato e che dovevo ancora sopportare, tentai di concentrarmi su dove mi trovavo, di pensare ad altro, di interagire con le persone che avevo intorno, perfino di recitare a mente le tabelline; ma il dolore fluiva in tutti i compartimenti della mia coscienza come acciaio fuso nelle fessure di un crogiolo crepato.

Di alcune cose mi rendevo conto, a quel tempo: mi trovavo in un pianeta identificato come Vitus-Gray-Balianus B dal mio comlog e stavo per attingere acqua da un pozzo, quando il dolore mi aveva colpito; una donna vestita di azzurro, unghie dei piedi smaltate dello stesso colore e visibili nei sandali a me che stavo disteso nella polvere, aveva chiamato altre persone in veste azzurra e con loro mi aveva portato a casa sua dove continuavo a lottare contro il dolore in un morbido letto; nella casa c’erano altre persone, un’altra donna in veste e sciarpa azzurre, un uomo più giovane, con abito e turbante azzurri, almeno due bambini vestiti anche loro d’azzurro; e quelle generose persone non solo avevano sopportato i miei gemiti di scusa e quelli meno articolati di quando mi torcevo per le fitte, ma mi avevano parlato di continuo, dato colpetti d’incoraggiamento, messo sulla fronte impacchi bagnati, tolto gli stivali e i calzini e il giubbotto, e in genere mormorato parole rassicuranti nel loro sommesso dialetto, mentre io cercavo con grandi sforzi di mantenere la mia dignità malgrado il furioso assalto del dolore alla schiena e all’addome.

Mi avevano portato da varie ore nella loro casa — dalla finestra vedevo che il cielo azzurro si era sbiadito nel rosa della sera — quando la donna che mi aveva trovato accanto al pozzo disse: «Cittadino, abbiamo chiesto aiuto al prete missionario locale e lui è andato a Bombasino, alla base della Pax, in cerca del medico. Per non so quale motivo, al momento gli skimmer della Pax e gli altri velivoli sono tutti impegnati, perciò il prete e il medico, se medico ci sarà, devono percorrere cinquanta tratte lungo il fiume. Con un po’ di fortuna, dovrebbero essere qui prima dell’alba».

Non sapevo quanto fosse lunga una "tratta" né quanto tempo occorresse per percorrerne cinquanta e neppure quanto durasse la notte su quel pianeta; ma il pensiero che potesse esserci una fine alla sofferenza bastò a farmi venire le lacrime agli occhi. Tuttavia mormorai: «Signora, la prego, niente dottore della Pax».

La donna mi toccò la fronte: aveva dita fresche. «Dobbiamo» disse. «Qui a Chiusa Lamonde non c’è più un medico. Lei potrebbe morire, senza l’aiuto di un medico.»

Gemetti e mi girai. Il dolore rotolò dentro di me come fil di ferro arroventato che venisse tirato attraverso capillari troppo stretti. Un medico della Pax avrebbe capito subito che provenivo da un altro pianeta e avrebbe segnalato la mia presenza alla polizia della Pax o all’esercito — se non l’aveva già fatto il "prete missionario" — e io sarei stato interrogato e messo in carcere. La missione affidatami da Aenea terminava presto, e con un fallimento. Quando, quattro anni e mezzo fa, il vecchio poeta Martin Sileno mi aveva mandato in quell’odissea, aveva brindato con me a champagne e aveva detto: "Agli eroi!". Se solo avesse saputo quanto lontano dalla realtà era stato quel brindisi! Forse l’aveva saputo.

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