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La notte passò con lentezza glaciale. Varie volte le due donne vennero a controllarmi; altre volte i bambini, in vesti azzurre che forse erano camicie da notte, mi scrutarono dal corridoio buio. In quelle occasioni non avevano copricapo, così vidi che la bambina era bionda, pettinata grosso modo come Aenea il giorno del nostro primo incontro, quando Aenea aveva dodici anni e io ventotto. Il maschietto, più giovane della bambina che pensavo fosse sua sorella, pareva molto pallido e quasi calvo. Ogni volta che guardava nella mia stanza, muoveva le dita rivolgendomi un timido saluto. Fra le ondate di dolore, agitavo debolmente le dita in risposta, ma ogni volta, appena riaprivo gli occhi, il bambino era sparito.

L’alba giunse e passò senza l’arrivo del medico. La disperazione mi travolse come una marea. Non sarei riuscito a resistere alla terribile sofferenza per un’altra ora. Sapevo per istinto che se le gentili persone di quella casa avessero avuto un analgesico avrebbero provveduto da tempo a somministrarmelo. Avevo trascorso la notte a pensare a tutto ciò che avevo portato con me nel kayak, ma gli unici medicinali erano un disinfettante e delle aspirine. Sapevo che queste ultime non avrebbero fatto niente contro le ondate di dolore.

Potevo resistere altri dieci minuti, decisi. Mi avevano tolto il braccialetto comlog e l’avevano messo in vista sul ripiano di mattoni vicino al letto, ma non avevo pensato a misurare col comlog le ore della notte. Ora mi sforzai di prenderlo, mentre il dolore mi torceva come ferro rovente, e me lo rimisi al polso. Bisbigliai alla IA della nave: «La funzione biomonitor è ancora attiva?».

"Sì" rispose il comlog.

«Sono moribondo?»

"I segni vitali non sono critici" disse la nave, nel suo solito tono piatto. "Ma lei pare in stato di shock. La pressione sanguigna è di…" e continuò a borbottare dati tecnici finché non le dissi di tacere.

«Sei riuscita a scoprire la causa delle mie sofferenze?» ansimai. Ondate di nausea seguirono le fitte. Da tempo avevo rimesso tutto ciò che avevo nello stomaco, ma i conati mi piegarono in due.

"Non è incompatibile con un attacco di appendicite" disse il comlog.

«Appendicite…» ripetei. Certi inutili particolari anatomici erano stati da tempo geneticamente rimossi dalla specie umana. «Ho l’appendice?» bisbigliai al comlog. Con l’alba era tornato il fruscio di vesti nella casa silenziosa e c’erano state varie visite delle due donne.

"No" rispose il comlog. "Sarebbe molto poco verosimile, a meno che lei non sia uno scherzo genetico. Le probabilità sarebbero di…"

«Silenzio» sibilai. Le due donne in azzurro entrarono in compagnia di un’altra donna, più alta, più magra, chiaramente originaria di un altro pianeta. Indossava una tuta scura e sulla spalla sinistra aveva la mostrina con la croce e il caduceo della Sanità della Flotta.

«Sono la dottoressa Molina» disse la donna, togliendo dallo zaino una valigetta nera. «Tutti gli skimmer della base sono impegnati in manovre militari e sono dovuta venire in barca, col giovanotto mandato a chiamarmi.» Mi applicò sul petto e sull’addome due cerotti diagnostici. «Non creda che abbia fatto solo per lei tutta questa strada. Uno skimmer della base è precipitato nei pressi di Keroa Tambat, ottanta chilometri a sud di qui, e devo badare ai feriti in attesa del ricovero ospedaliero. Niente di grave, solo contusioni e una gamba rotta. Per una sciocchezza del genere non hanno voluto togliere dal gioco uno skimmer.» Prese dalla valigetta un aggeggio manuale e controllò i dati che riceveva dai cerotti diagnostici. «Se lei è uno di quegli spaziali della Pax Mercatoria che qualche settimana fa sono sbarcati clandestinamente nello spazioporto» continuò «non si illuda di rubarmi medicinali e denaro. Viaggio in compagnia di due guardie di sicurezza che sono proprio qui fuori.» Si mise due auricolari. «Allora, giovanotto, cosa non va?»

Scossi la testa e digrignai i denti per combattere l’ondata di dolore che mi straziò la schiena in quel momento. Quando riuscii a parlare, dissi: «Non lo so, dottore… la schiena… nausea…»

Lei non badò alle mie parole e controllò l’aggeggio manuale. A un tratto si chinò su di me e mi premette l’addome, a sinistra. «Fa male?»

Quasi urlai. «Sì» ansimai, quando riuscii a parlare.

La dottoressa annuì e si rivolse alla donna in azzurro che mi aveva salvato. «Dica al prete che era con me di portarmi la borsa più grande. Quest’uomo è completamente disidratato. Bisogna montare una flebo. Appena sarà in funzione, gli somministrerò dell’ultramorfina.»

Mi resi conto allora di ciò che sapevo da quando, ancora bambino, guardavo mia madre morire di cancro, ossia che al di là di ideologia e ambizione, al di là del ragionamento e dell’emotività, c’era solo dolore. E salvezza dal dolore. In quel momento avrei fatto qualsiasi cosa per quella dottoressa della Flotta della Pax, scorbutica e chiacchierona.

«Cos’è?» domandai, mentre lei preparava un flacone e vari tubicini. «Da dove viene questo dolore?» La dottoressa aveva in mano una siringa ad ago di tipo antiquato e la riempiva da una fiala di ultramorfina. Se mi avesse detto che avevo contratto una malattia letale e che sarei morto prima di notte, non mi sarei lamentato, purché prima mi avesse fatto l’iniezione di analgesico.

«Calcolo renale» disse la dottoressa Molina.

Evidentemente mostrai di non avere capito, perché lei continuò: «Un sassolino nel rene… troppo grande per passare… probabilmente di calcio. Negli ultimi giorni ha avuto difficoltà a urinare?».

Ripensai all’inizio del viaggio e a prima. Non avevo bevuto abbastanza acqua e avevo attribuito a questo l’occasionale dolore e difficoltà nella minzione. «Sì, ma…»

«Calcolo renale» disse lei, sfregandomi con un batuffolo di cotone il polso sinistro. «Una punturina qui.» Inserì l’ago per endovena e lo fissò con un po’ di dermoplastica. La puntura dell’ago andò completamente perduta nella cacofonia di dolore alla schiena. Seguirono armeggiamenti con il tubicino endovenoso e l’inserimento della siringa in una sua propaggine. «Avrà effetto in un minuto» disse la dottoressa. «Dovrebbe eliminare il fastidio.»

Fastidio, lo chiamava! Chiusi gli occhi per non far vedere le lacrime di sollievo. La donna che mi aveva trovato accanto al pozzo mi tenne la mano.

Un minuto dopo, il dolore cominciò a svanire. Mai l’assenza di qualcosa era stata tanto benvenuta. Era come se un forte e terribile rumore fosse finalmente cessato, così da permettermi di pensare. Tornai di nuovo me stesso, mentre la sofferenza scendeva a livelli che avevo già conosciuto per ferite di coltello e ossa rotte. Quel dolore si poteva sopportare senza perdere la dignità. La donna in azzurro mi toccava il polso, mentre iniziava l’effetto dell’ultramorfina.

«Grazie» le dissi, con labbra secche e screpolate, stringendole la mano. «E grazie anche a lei, dottoressa Molina» soggiunsi al medico della Pax.

La dottoressa si chinò su di me e mi picchiettò le guance. «Fra poco si addormenterà» disse. «Ma prima mi occorrono delle risposte. Resti sveglio ancora per un minuto.»

Annuii, già intontito.

«Come si chiama?»

«Raul Endymion.» Mi resi conto di non poterle mentire. Di sicuro la flebo conteneva anche veritina o un’altra droga.

«Da dove viene, Raul Endymion?» Teneva l’apparecchio diagnostico come se fosse un registratore.

«Hyperion. Continente Aquila. Il mio clan era…»

«Come è arrivato a Chiusa Childe Lamonde, su Vitus-Gray-Balianus B? Raul, è uno degli spaziali sbarcati clandestinamente dal cargo della Pax Mercatoria il mese scorso?»

«Kayak.» Cominciavo a sentire la mia voce come se provenisse da molto lontano. Ero pervaso da un grande calore, quasi indistinguibile dal senso di sollievo che mi inondava. «Ho vogato lungo il fiume, in kayak» borbottai. «Dal teleporter. No, non sono uno degli spaziali che…»

«Teleporter?» ripeté la donna, perplessa. «Cosa significa che è venuto dal teleporter, Raul Endymion? Vuol dire che vi è passato sotto a colpi di remi come abbiamo fatto noi? Che vi è passato sotto nel viaggio a valle del fiume?»

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