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«Possibilissimo, signor Sileno» disse A. Raddik. «Ma è anche possibile che ci sia una pestilenza virale vera e propria su quei pianeti dove…»

«No» disse il poeta, scuotendo la testa quasi violentemente. «È Aenea. E i suoi insegnamenti. Che si diffondono come l’influenza Beijing. Tu non ricordi la Beijing, vero, Raddik?»

«No, signore» disse l’androide, terminando il controllo dei dati e spostando sull’automatico il modulo. «Si verificò prima del mio tempo. Fu prima del tempo di chiunque. Tranne il suo, signore.»

Normalmente il poeta avrebbe reagito con qualche esclamazione oscena, ma stavolta si limitò ad annuire. «Lo so. Sono uno scherzo di natura. Paga il tuo quarto di dollaro e vieni a vedere l’attrazione, guarda l’uomo più vecchio della galassia, guarda la mummia che cammina e parla, più o meno, guarda la disgustosa creatura che si rifiuta di morire! Sono bizzarro, vero, A. Raddik?»

«Sì, signor Sileno.»

Il poeta borbottò qualcosa. «Be’» disse poi «non sperarci troppo, fata turchina. Non schiatterò prima di avere avuto notizie di Raul e di Aenea. Devo terminare i Canti e non conosco la fine, finché loro non l’avranno creata per me. Come so ciò che penso, finché non vedo ciò che fanno?»

«Precisamente, signor Sileno.»

«Smettila di darmela sempre vinta, fata turchina.»

«Sì, signor Sileno.»

«Quasi dieci anni fa, il ragazzo, Raul, mi domandò quali erano i suoi ordini. Gli dissi: salva la bambina, Aenea, rovescia la Pax, distruggi il potere della Chiesa, e riporta la Terra dov’è sempre stata, in qualsiasi fottuto posto sia finita. Disse che l’avrebbe fatto. A quel tempo, certo, era sbronzo marcio come me.»

«Sì, signor Sileno.»

«Ebbene?» disse il poeta.

«Ebbene cosa, signore?»

«C’è segno che abbia fatto davvero una delle cose che promise, Raddik?»

«Sappiamo dalle trasmissioni della Pax di nove anni e otto mesi fa che lui e la nave del console fuggirono da Hyperion» disse l’androide. «Possiamo augurarci che la bambina Aenea sia tuttora in buone condizioni.»

«Sì, sì» borbottò Sileno, agitando debolmente la mano. «Ma la Pax è stata rovesciata?»

«Non che ci risulti, signor Sileno» disse A. Raddik. «Ci sono stati quei piccoli guai di cui ho appena parlato e qui su Hyperion il turismo di cristiani rinati di altri pianeti è un po’ in crisi, ma…»

«E la fottuta Chiesa è ancora nel traffico di zombi?» domandò il poeta. La sua flebile voce era un po’ più forte.

«La Chiesa rimane dominante» disse A. Raddik. «Ogni anno un numero sempre maggiore di gente della brughiera e della montagna accetta il crucimorfo.»

«’fanculo tutti» disse il poeta. «E immagino che la Terra non sia tornata al suo posto.»

«Non abbiamo avuto notizia di quell’improbabile avvenimento» disse A. Raddik. «Naturalmente, come ho già detto, in questi giorni il nostro origliare elettronico è limitato alle trasmissioni planetarie; inoltre, da quando la nave del console è partita con il signor Endymion e la signorina Aenea, quasi dieci anni fa, le nostre capacità di decrittazione non sono state…»

«D’accordo, d’accordo» disse il poeta. Parve di nuovo terribilmente stanco. «Mettimi nella sedia a cuscino d’aria.

«Non ancora, per due giorni almeno, purtroppo» ripeté l’androide, in tono gentile.

«Piscia su per una corda» disse l’anziana figura sospesa fra tubicini e cavetti sensori. «Puoi spingermi fino alla finestra, Raddik? Per favore. Voglio guardare gli alberi chalma in primavera e le rovine di questa vecchia città.»

«Sì, signor Sileno» disse l’androide, sinceramente compiaciuta di fare qualcosa per il vecchio, oltre a tenergli funzionante il corpo.

Martin Sileno guardò dalla finestra per un’ora buona, lottando contro le ondate di sofferenza dovuta al risveglio e il terribile impulso di tornare in crio-fuga. Era mattino. Gli impianti audio gli trasmettevano il canto degli uccelli. Il vecchio poeta pensò alla giovane nipote adottiva, la bambina che aveva scelto per sé il nome Aenea, pensò alla cara amica Brawne Lamia, madre di Aenea, al lungo periodo in cui erano stati nemici e si erano odiati per una parte dell’ultimo grande pellegrinaggio allo Shrike, tanto tempo prima, alle storie che si erano raccontati e alle cose che avevano visto, lo Shrike nella valle delle Tombe del Tempo e i suoi occhi rossi e ardenti, lo studioso… come si chiamava?… Sol… Sol e la sua figlioletta in fasce che invecchiava a ritroso verso la non esistenza, e il militare, Kassad si chiamava, colonnello Kassad. Il vecchio poeta non aveva mai avuto considerazione per i militari, idioti tutti quanti, ma Kassad gli aveva raccontato una storia interessante, aveva vissuto una vita interessante, l’altro prete, Lenar Hoyt, era stato un presuntuoso e un cazzone, ma il primo, quello con gli occhi tristi e il diario rilegato in pelle, Paul Duré, ecco un uomo su cui valeva la pena scrivere…

Martin Sileno scivolò di nuovo nel sonno, mentre la luce del mattino lo inondava, illuminava le sue innumerevoli rughe e la pelle trasparente, simile a pergamena, le vene azzurre visibili e pulsanti debolmente nella ricca luce. Non sognò: ma una parte della sua mente di poeta già tracciava le prossime stanze dei Canti mai terminati.

Il sergente Gregorius non aveva esagerato. Il padre capitano de Soya era stato terribilmente ferito e ustionato nell’ultima battaglia della sua nave, la Raffaele, ed era prossimo alla morte.

Il sergente ci aveva condotti nel tempio. L’edificio era bizzarro quanto il nostro incontro: all’esterno c’era una grossa stele di pietra intatta, un liscio monolito (Aenea disse en passant che era stato portato dalla Vecchia Terra, che un tempo si trovava all’esterno dell’originario Tempio dell’Imperatore di Giada e che nel migliaio d’anni in cui era stato sul sentiero dei pellegrini nessuno vi aveva mai inciso niente) e nel cortile sigillato e pressurizzato del tempio una ringhiera di pietra correva intorno a un masso tondeggiante che era in realtà la cima del T’ai Shan, il sacro Grande Picco del Regno di mezzo. Nell’edificio c’erano a disposizione dei pellegrini alcune stanzette per dormire e per pranzare; in una di queste trovammo il padre capitano de Soya e gli altri due superstiti, Carel Shan, ufficiale dei sistemi di fuoco, gravemente ustionato e privo di conoscenza, e Hoagan Liebler, presentato da Gregorius come "l’ex comandante in seconda" della Raffaele. Liebler era il meno grave dei quattro — braccio sinistro rotto, sorretto da una fascia, ma niente ustioni né altre ferite da impatto — ma aveva un’espressione silenziosa e remota, come se fosse sotto shock o se rimuginasse qualcosa.

Aenea rivolse subito l’attenzione al capitano Federico de Soya.

Il padre capitano era disteso in una delle scomode brandine per i pellegrini, nudo fino alla cintola, forse perché era stato spogliato da Gregorius, forse perché aveva perduto la parte superiore dell’uniforme nell’esplosione e nel rientro nell’atmosfera. Aveva i calzoni a brandelli. Era scalzo. L’unico punto del corpo che non fosse coperto di terribili ustioni era il petto col parassita crucimorfo, di un sano e nauseante colore rosa. I capelli erano bruciati completamente e la faccia era schizzata di ustioni da gocce di metallo liquido e da sferzate di radiazioni. Ma vidi che era stato un uomo notevole, soprattutto per gli occhi castani, umidi e turbati, non offuscati neppure dal dolore che in quel momento di sicuro lo sopraffaceva. Qualcuno gli aveva applicato su tutta la parte visibile del corpo uno strato di crema contro le ustioni, del salvapelle temporaneo, del disinfettante liquido; poi lo aveva collegato alla flebo del medikit standard della scialuppa. Ma quelle cure non avrebbero influito molto sul risultato finale. Avevo già visto ustioni da combattimento come quelle, non tutte provocate da scontri spaziali. Tre miei amici, durante i combattimenti nell’Artiglio di ghiaccio, erano morti nel giro di alcune ore perché non eravamo riusciti a portarli via. Le loro urla erano state talmente orribili da non poterle sopportare.

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