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Il vecchio nel letto riuscì a sollevare il braccio scheletrico in un saluto piuttosto brioso. «Ci vediamo all’inferno, Nave!»

Uscimmo sulla rampa lastricata, lasciammo la fetta di città, e guardammo praterie e lontani dirupi non molto diversi dalle brughiere della mia infanzia, a parte la linea di foreste alla nostra destra. La gravità e la pressione dell’aria erano come le ricordavo dal soggiorno di quattro anni sulla Terra, anche se qui l’umidità era molto maggiore che nel deserto.

«Dove ci troviamo?» domandai a nessuno in particolare. Ket Rosteen era rimasto nella torre e solo l’androide, il morente poeta, padre de Soya e io eravamo all’esterno in quello che pareva un soleggiato mattino di primavera nell’emisfero settentrionale.

«Dov’era un tempo la tenuta di mia madre» mormorò il sintetizzatore vocale di Martin Sileno. «Nel cuore del cuore della Riserva nordamericana.»

A. Bettik alzò gli occhi dai dati degli strumenti medici. «Credo che questa zona si chiamasse Illinois, prima del Grande Errore. Ci troviamo al centro di quello Stato, credo. Le praterie sono tornate, a quanto vedo. Quegli alberi sono olmi e noci, estinti nel XXI secolo, se non sbaglio. Quel fiume al di là delle alture scorre a sud-sudovest e confluisce nel Mississippi. Credo che lei abbia… percorso in kayak un tratto di quel fiume, signor Endymion.»

«Già» dissi, ricordando la fragile imbarcazione e l’addio ad Hannibal e il primo bacio di Aenea.

Restammo in silenzio. Il sole si alzò ancora. Il vento agitava l’erba. Da qualche parte, al di là della linea d’alberi, un uccello protestò come solo gli uccelli sanno fare. Guardai Martin Sileno.

«Ragazzo» disse il sintetizzatore del vecchio poeta «se ti aspetti che muoia al momento giusto solo per risparmiarti una scottatura, toglitelo dalla fottuta testa. Mi tengo aggrappato con le unghie, ma le mie unghie sono vecchie e lunghe e dure.»

Sorrisi e gli toccai la spalla ossuta.

«Ragazzo?» mormorò il vecchio poeta.

«Sì, signore.»

«Anni fa mi dicesti che la tua vecchia nonna ti aveva fatto imparare a memoria i Canti fino a farteli uscire dalle orecchie. È vero?»

«Sì, signore.»

«Riesci a ricordare i versi che scrìssi su questo luogo com’era ai miei tempi?»

«Posso provarci» dissi. Chiusi gli occhi. Fui tentato di toccare il Vuoto, di cercare il suono di quelle lezioni nella voce di nonna, anziché sforzarmi di ricordare quei versi; invece seguii la via più dura, usando i trucchi mnemonici che nonna mi aveva insegnato. Lì fermo, occhi sempre chiusi, recitai i brani che riuscivo a ricordare:

«Delicati crepuscoli si stingono

da fucsia a viola sopra le arricciate

sagome d’alberi al di là del prato.

Cieli di porcellana trasparente

non sfregiati da nubi o bianche scie.

Il quieto presinfonico chiarore

dell’aurora seguito dal frastuono

di cimbali del sole che si leva.

Arancione e rossiccio in oro accendono

la discesa nel verde, lunga e fresca:

ombra di foglia, oscurità, viticci

di cipresso e di salice piangente,

della radura il verde soffocato.

«Le terre di mia madre — mie — mille acri

d’altri milioni al centro. Prati come

piccole praterie d’erba perfetta,

un invito a sdraiarsi, a sonnecchiare

su tanta morbidezza vellutata.

Nobili chiome d’albero alla Terra

fanno da meridiana, la lor ombra

gira in cerchio in solenne processione;

or si diffonde ed ora si restringe,

infin s’estende col morir del giorno.

Regale quercia.

Olmi giganti.

Pioppo e cipresso

sequoia e bonsai.

Grandi baniani calan nuovi tronchi

come lisce colonne d’un gran tempio

aperto al cielo.

Salici che costeggiano canali

ben ordinati e fiumi posti a caso,

coi loro rami

cantano antichi funebri lamenti

al dolce vento.»

Mi fermai. La parte seguente era confusa. Non mi erano mai piaciuti quei passi pseudolirici dei Canti, preferivo le scene di guerra.

Mentre recitavo, gli avevo tenuto la mano sulla spalla e avevo sentito che il vecchio poeta si rilassava. Aprii gli occhi, aspettandomi di vedere nel letto un cadavere.

Martin Sileno mi scoccò un sogghigno da satiro. «Non male, non male» gracchiò. «Non male per un vecchio poeta da strapazzo.» Puntò gli occhiali videocamera sull’androide e sul prete. «Capite perché ho scelto questo ragazzo per completare i Canti per me? Non sa scrivere niente che valga una merda, ma ha una memoria da elefante.»

Mentre stavo per domandare: "Cos’è un elefante?", lanciai un’occhiata ad A. Bettik, senza una ragione particolare. Per un istante, dopo tutti gli anni di conoscenza di quel gentile androide, lo vidi davvero. Rimasi a bocca aperta.

«Che c’è?» domandò padre de Soya, in tono allarmato. Forse credette che avessi un attacco di cuore.

«Tu» dissi ad A. Bettik. «Sei tu, l’osservatore.»

«Sì» ammise l’androide.

«Sei uno di loro… uno di loro… dei Leoni e Tigri e Orsi.»

De Soya girò lo sguardo da me all’androide, al vecchio che continuava a ghignare nel letto, poi di nuovo all’androide.

«Non ho mai apprezzato la definizione scelta dalla signorina Aenea» disse A. Bettik, a voce molto bassa. «Non ho mai visto un leone o una tigre o un orso in carne e ossa, ma so che quelle creature condividono una certa ferocia che è estranea a… alla specie aliena a cui appartengo.»

«Hai preso la forma di un androide secoli fa» dissi, continuando a fissarlo, in una comprensione sempre più profonda, netta e dolorosa come un colpo sulla testa. «Eri presente a tutti gli eventi principali — l’ascesa dell’Egemonia, la scoperta delle Tombe del Tempo su Hyperion, la Caduta dei teleporter — Dio buono, hai seguito gran parte dell’ultimo pellegrinaggio allo Shrike.»

A. Bettik chinò leggermente la testa. «Se si deve osservare, signor Endymion, bisogna trovarsi nel posto giusto.»

Mi sporsi sul letto di Martin Sileno, pronto a scuoterlo e, se era già morto, riportarlo in vita per avere una risposta. «Lei lo sapeva, vecchio?»

«Non lo sapevo, quando è partito con te, Raul» rispose il poeta. «Solo quando ho letto la tua storia e mi sono reso conto…»

Arretrai di due passi nell’erba alta e tenera. «Che idiota, sono stato! Non ho visto niente. Non ho capito niente. Che scemo!»

«No» disse padre de Soya. «Eri innamorato.»

Avanzai verso A. Bettik, pronto a strozzarlo se non mi avesse risposto immediatamente e sinceramente. Forse l’avrei strozzato davvero. «Sei tu il padre» dissi. «Hai mentito, dicendo di non sapere dove Aenea era scomparsa per quasi due anni. Sei tu, il padre di suo figlio, del prossimo messia.»

«No» replicò con calma l’androide. L’osservatore. L’osservatore con un braccio solo, l’amico che aveva rischiato con noi la vita in decine di occasioni. «No» ripeté. «Non sono il marito di Aenea. Non sono il padre.»

«Per favore, non mentire proprio a me.» Mi tremavano le mani. Sapevo che non l’avrebbe fatto. Non aveva mai mentito.

A. Bettik mi guardò negli occhi. «Non sono il padre» disse. «Non c’è nessun padre, ora. Non c’è mai stato un altro messia. Non c’è nessun figlio.»

"Morti" pensai. "Sono morti tutt’e due, il figlio di Aenea, il marito di Aenea, chiunque fosse, qualsiasi cosa fosse. La stessa Aenea. La mia cara ragazza. La mia amata. Non resta niente. Ceneri." In qualche modo, anche mentre mi ero dedicato a trovare il bambino, a supplicare l’osservatore suo padre perché mi facesse diventare l’amico e la guardia del corpo e il discepolo di quel bambino, come ero stato per Aenea, a usare questa nuova speranza come un mezzo di fuga dalla scatola di Schrödinger, nel profondo del cuore avevo sempre saputo che nell’universo non c’era figlio vivente della mia amata… Avrei udito la musica della sua anima risonare nel Vuoto come una fuga di Bach… Niente bambino. Tutto era cenere.

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