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«Ma non li hai ancora terminati, ragazzo. I Canti non sono ancora completi.»

Lo fissai freddamente da quei pochi metri di distanza. «Cosa vorrebbe dire, vecchio?»

«Devi portarmi giù, così possiamo terminarli, Raul. Insieme.»

Non potevamo teleportarci sulla Vecchia Terra perché laggiù non c’era nessuno che potessi usare come faro di riferimento, così decidemmo di usare gli erg e far atterrare l’intero pezzo di città. La manovra poteva risultare fatale a Martin Sileno, ma il vecchio poeta ci aveva urlato di piantarla con i casini per l’amor di Dio e di procedere, così procedemmo. La Sequoia semperoirens si era tenuta in orbita bassa intorno alla Vecchia Terra, o semplicemente Terra, come Martin Sileno pretese che la chiamassimo, per parecchie ore. I sistemi ottici, radar e sensori della nave-albero avevano mostrato un pianeta privo di vita umana, ma ricco di animali, uccelli, pesci e piante, senza traccia di inquinamento nell’atmosfera. Avevo progettato di atterrare a Taliesin West, ma i telescopi mostrarono che gli edifici erano scomparsi. Restava solo il deserto, probabilmente così com’era negli ultimi giorni prima della teorica caduta della Terra nel buco nero causato dal Grande Errore del ’38. La Roma dove era tornato il secondo cìbrido John Keats era scomparsa. Tutte le città e gli edifici che avevo ritenuto ricostruzioni sperimentali dei Leoni e Tigri e Orsi erano scomparsi. La Terra era stata ripulita di città e di autostrade e di ogni traccia dell’uomo. Pulsava di vita e di buona salute, come se aspettasse il nostro ritorno.

Fermo nei pressi della nave del console, su suolo di Hyperion, nella città racchiusa nella nave-albero, circondato da vecchi amici di Aenea, discutevo del viaggio sulla Terra e intanto mi domandavo chi avrebbe avuto voglia di scendere sul pianeta e chi avrebbe dovuto accompagnarci, pensando per tutto il tempo solo al piccolo contenitore metallico nella borsa di padre de Soya, quando A. Bettik venne avanti e si schiarì la voce.

«Mi scusi, signor Endymion, se la interrompo.» Il mio vecchio amico androide pareva contrito al punto da arrossire malgrado la pelle azzurra, come sempre gli accadeva quando doveva contraddire uno di noi. «Ma la signora Aenea mi ha lasciato precise istruzioni, nel caso che lei, signor Endymion, fosse tornato sulla Vecchia Terra, come appunto è accaduto.»

Restammo tutti ad aspettare che continuasse. Sulla Yggdrasill non avevo udito Aenea dare istruzioni all’androide. Ma d’altra parte sulla nave-albero la situazione, verso la fine, era diventata rumorosa e caotica.

A. Bettik si schiarì di nuovo la voce. «La signora Aenea ha precisato che Ket Rosteen avrebbe guidato l’atterraggio, se atterraggio ci fosse stato, insieme con altre quattro persone da sbarcare una volta atterrati, e mi ha chiesto di presentare le sue scuse a tutti voi che vorreste scendere immediatamente sulla Vecchia Terra. Scuse speciali, ha detto, a care amiche come la signora Rachel e la signora Theo e ad altri particolarmente ansiosi di vedere il pianeta. La signora Aenea mi ha chiesto di assicurarvi che sarete i benvenuti sulla Terra, due settimane dopo il giorno dell’atterraggio, il giorno prima che la nave-albero lasci l’orbita. Mi ha chiesto ancora di dirvi che fra due anni standard, ossia due anni della Terra, chiunque sia in grado di teleportarsi qui da solo sarà il benvenuto e potrà visitare la Terra.»

«Fra due anni?» dissi. «Perché una quarantena di due anni?»

A. Bettik scosse la testa. «La signora Aenea non l’ha precisato, signor Endymion. Mi spiace.»

Allargai le braccia. «E va bene, sentiamo allora chi può scendere subito.» Se il mio nome non fosse stato nell’elenco, sarei sceso lo stesso, senza curarmi delle ultime volontà di Aenea. Avrei usato i pugni per fare parte del gruppo, se necessario. O avrei dirottato la nave del console. O mi sarei teleportato da solo.

«Lei, signore» disse A. Bettik. «Ha precisato chiaramente il suo nome, signor Endymion. E il signor Sileno, è ovvio. Padre de Soya. E infine…» Esitò, come se fosse di nuovo imbarazzato.

«Continua» lo incitai, più bruscamente di quanto non volessi.

«Io» disse A. Bettik.

«Tu?» ripetei. Ma capii subito che era una scelta sensata. L’androide aveva fatto con noi il lungo viaggio, anzi aveva trascorso con Aenea più tempo di me, considerato il debito temporale che avevo accumulato nel mio viaggio da solo. Inoltre A. Bettik aveva rischiato la vita per Aenea, per noi, e aveva perduto il braccio nell’imboscata di Nemes su Bosco Divino. Aveva ascoltato gli insegnamenti di Aenea ancora prima che Rachel e Theo, o io, ci arruolassimo come discepoli. Era logico che volesse lì il suo amico A. Bettik, quando avrei sparpagliato le sue ceneri ai venti della Vecchia Terra. Mi vergognai d’avere mostrato stupore. «Scusa» dissi. «Mi pare giusto che venga anche tu.»

A. Bettik rispose con un lieve cenno.

«Ancora due settimane» dissi agli altri, sul viso di gran parte dei quali si leggeva la delusione. «Fra due settimane saremo tutti giù sulla Terra; ci guarderemo intorno e scopriremo quali sorprese i Leoni e Tigri e Orsi hanno lasciato per noi.»

Ci salutammo. I vecchi amici, templari, Ouster e altri, lasciarono la città di Endymion e rimasero a guardare, dalle scale e dalle piattaforme della nave-albero. Rachel fu l’ultima. Con mia sorpresa, mi abbracciò forte. «Mi auguro di cuore che tu ne sia degno» mi disse all’orecchio. Non avevo la minima idea di che cosa parlasse. Quella bruna sbarazzina, come gran parte delle donne, era sempre stata un mistero per me.

«Tutto a posto» dissi, quando fummo riuniti attorno al letto di Martin Sileno. Scorgevo sopra di noi la Vecchia Terra… la Terra. La scena si annebbiò e poi scomparve, mentre i campi di contenimento si mischiavano, si ingarbugliavano e poi si separavano, i campi di guida fluivano e la città si staccava dalla nave-albero. I cloni d’equipaggio templari e gli Ouster avevano allestito dei quadri comando provvisori nella sala di rianimazione della torre, un posto dove, con tutte le apparecchiature mediche di Martin Sileno, rimaneva ben poco spazio. Era anche, pensai, un posto buono quanto un altro per aspettare che gli erg facessero atterrare una massa di rocce e di erba, una città con una torre e un’astronave parcheggiata e mezzo ponte che non portava da nessuna parte, su un pianeta fatto per tre quinti di acqua, senza spazioporti né controllo del traffico. Almeno, pensai, se eravamo destinati a precipitare e morire, avrei avuto un indizio dell’imminente catastrofe guardando, nei secondi che l’avrebbero preceduta, l’impassibile viso di Ket Rosteen sotto il cappuccio da templare.

Non sentimmo l’ingresso nell’atmosfera terrestre. Solo il graduale cambiamento del cerchio di cielo sopra di noi, da una distesa di stelle all’azzurro, ci lasciò capire che eravamo entrati con successo nell’atmosfera. Non sentimmo l’atterraggio. L’attimo prima stavamo in silenzio ad aspettare, e poi Ket Rosteen alzò gli occhi dai visori e dai monitor, mormorò nei comunicatori qualche parola ai suoi amati erg e disse a noi: «Atterraggio effettuato».

«Ho dimenticato di dire dove dovevamo scendere» replicai. Pensavo al deserto dove un tempo sorgeva Taliesin. Doveva essere il luogo dove Aenea era stata più felice; dove voleva che quelle ceneri — sapevo che erano sue, ma ancora non potevo crederci — fossero sparse ai caldi venti dell’Arizona.

Ket Rosteen lanciò un’occhiata al letto sospeso.

«Gli ho detto io dove fare il fottuto atterraggio» gracchiò il sintetizzatore vocale del vecchio poeta. «Dove sono nato. Dove conto di morire. Ora, vi dispiace darvi da fare e spingermi fuori di qui in modo che possa vedere il cielo?»

A. Bettik staccò tutti i monitor di Sileno, tranne le indispensabili apparecchiature di supporto vita, che sistemò con il vecchio nello stesso campo repulsore EM. Mentre eravamo nella nave-albero, gli androidi e i cloni di equipaggio e gli Ouster avevano costruito una lunga rampa poco inclinata che andava dalla stanza in cima alla torre al terreno, poi avevano lastricato un sentiero fino al bordo della fetta di città e oltre. Tutto era atterrato senza danni, notai, mentre accompagnavamo fuori alla luce del sole e poi a terra il letto sospeso. Nel passare davanti all’astronave color ebano, un altoparlante nello scafo disse: «Addio, Martin Sileno. È stato un onore conoscerla».

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