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«Quando è stata?»

«Cosa?»

«Quando è stata, la festa?» Dietro di noi, il Mississippi emergeva dal buio e si perdeva nel buio, con la velocità di un treno a levitazione magnetica.

«Aprile» risposi. «Primi di maggio. Non so.»

Aenea annuì. «E cosa indossava il signor Wright quella sera?»

Non avevo mai avuto l’impulso di colpire, picchiare o sgridare Aenea. Mai, fino a quel momento. «Come vuoi che lo sappia? Perché dovrei ricordarmene?»

«Prova.»

Lasciai uscire il fiato e guardai dalla parte delle scure colline, nel nero della notte. «Merda, non lo so… il completo grigio di lana. Sì, lo ricordo fermo accanto al piano, vestito di grigio. Il completo grigio con i bottoni grossi.»

Aenea annuì di nuovo. «Il compleanno di Bets fu a metà marzo» disse, superando il picchiettio della pioggia sui cappucci. «Il signor Wright non era presente, aveva l’influenza.»

«E allora?» replicai, pur sapendo benissimo dove voleva arrivare.

«Allora io ricordo frammenti del futuro» disse Aenea, con voce che pareva vicina alle lacrime. «Ho paura di fidarmi di quei ricordi. Se ti dico quando ci rivedremo, potrebbe essere come per il vestito del signor Wright.»

Rimasi in silenzio per un minuto buono. La pioggia batteva col rumore di minuscoli pugni sul coperchio di una bara. Alla fine dissi: «Già».

Aenea mi mise le braccia al collo. I poncho frusciarono. Mentre ci abbracciavamo goffamente, sentii la rigidità della sua schiena e la nuova morbidezza del suo petto.

Aenea si scostò. «Mi dai un attimo la torcia?»

Gliela porsi. Aenea scostò la copertura di nylon del piccolo abitacolo del kayak e illuminò una stretta striscia di lucido legno sotto la fibra di vetro. Un pulsante rosso, protetto da un pannello trasparente, luccicò alla pioggia. «Vedi quel pulsante?»

«Sì.»

«Non toccarlo, qualsiasi cosa accada.»

Ammetto d’essere scoppiato a ridere. Fra le cose che avevo letto nella biblioteca di Taliesin West c’erano commedie dell’assurdo come Aspettando Godot. Mi parve che qui eravamo volati in una latitudine dell’assurdo e del surreale.

«Parlo sul serio» disse Aenea.

«Perché mettere un pulsante che non bisogna toccare mai?» replicai, asciugandomi dal viso le goccioline di umidità.

«Volevo dire: non toccarlo, finché non dovrai assolutamente premerlo.»

«Come saprò di doverlo assolutamente premere, ragazzina?»

«Lo saprai» replicò lei. Mi abbracciò di nuovo. «Meglio mettere in acqua il kayak.»

Mi chinai a baciarla sulla fronte. Negli ultimi anni avevo fatto decine di volte quel gesto, quando le auguravo buona fortuna prima di una delle sue sparizioni, quando le rimboccavo le coperte, quando stava male per la febbre o era mezza morta di stanchezza. Ma appena chinai la testa per baciarla, Aenea sollevò il viso e, per la prima volta da quando ci eravamo incontrati fra la sabbia e il caos nella valle delle Tombe del Tempo, la baciai sulle labbra.

Mi pare d’avere già detto che lo sguardo di Aenea è più potente e intimo del contatto fisico di molte persone, che il suo tocco è come una scarica elettrica. Quel bacio fu… qualcosa che andava al di là. Avevo trentadue anni, quella notte ad Hannibal, sulla riva ovest del fiume noto come Mississippi, su un pianeta un tempo noto come Terra e ora perduto chissà dove nella Piccola Nube di Magellano, nel buio e sotto la pioggia, e non avevo mai provato una scarica di sensazioni come per quel primo bacio.

Mi ritrassi, turbato. La torcia laser si era spostata verso l’alto fra di noi e così vidi il luccichio degli occhi scuri di Aenea: uno sguardo di chi sa d’avere combinato una marachella, forse, o forse di chi prova sollievo come per la fine di una lunga attesa e altro, forse.

«Addio, Raul» disse Aenea. Alzò il kayak dalla sua parte.

Con la mente che vacillava, misi la prua nell’acqua scura, al fondo della rampa, e mi calai nell’abitacolo. A. Bettik l’aveva fatto apposta per me, come un abito su misura. Mentre mi sistemavo, badai a non premere accidentalmente il pulsante rosso. Aenea diede una spinta e il kayak galleggiò in venti centimetri d’acqua. Aenea mi passò la pagaia, poi lo zaino, poi la torcia laser.

Puntai il raggio sull’acqua scura che ci separava. «Dov’è l’arcata del teleporter?» domandai. Udii le mie parole come da lontano, come se provenissero da una terza persona. Mente ed emozioni erano ancora sotto l’influsso del bacio. Avevo trentadue anni. Aenea ne aveva appena compiuti sedici. Il mio compito era quello di proteggerla e di tenerla in vita fino al momento in cui saremmo tornati su Hyperion dal vecchio poeta. Questa storia era pura follia.

«La vedrai» mi rispose Aenea. «A un certo punto, quando si sarà fatto giorno.»

Perciò il teleporter distava ore di viaggio. Era proprio il teatro dell’assurdo. «E cosa farò, quando avrò trovato la nave? Dove ci incontreremo?»

«C’è un pianeta che si chiama T’ien Shan» disse Aenea. «Significa "Montagne del cielo". La nave saprà come trovarlo.»

«Si trova nello spazio della Pax?»

«A malapena» rispose Aenea. Il suo respiro restava sospeso nella gelida aria. «Si trovava nella Periferia dell’Egemonia. La Pax l’ha incluso nel Protettorato e ha assicurato che vi manderà dei missionari, ma non l’ha ancora sottomesso.»

«T’ien Shan» ripetei. «D’accordo. Come ti trovo? I pianeti sono piuttosto vasti.»

Nel raggio ballonzolante della torcia vedevo i suoi occhi: erano umidi di pioggia o di lacrime o di tutt’e due. «Cerca una montagna che si chiama Heng Shan, la Sacra Montagna del Nord. Nelle vicinanze ci sarà un posto chiamato Hsuan-k’ung Ssu. Significa "Tempio a mezz’aria". Dovrei essere lì.»

Feci un gesto villano. «Magnifico! Dovrò solo presentarmi alla locale guarnigione della Pax e chiedere indicazioni per raggiungere il Tempio a mezz’aria e tu sarai lì a mezz’aria ad aspettarmi.»

«Su T’ien Shan ci sono solo poche migliaia di montagne» disse Aenea, con voce piatta e infelice. «E solo poche… città. La nave può trovare Heng Shan e Hsuan-k’ung Ssu dall’orbita. Non potrai atterrare, ma potrai sbarcare dalla nave.»

«Perché non potrò atterrare?» replicai, irritato da quella sorta di scatole cinesi: rompicapi dentro enigmi dentro codici.

«Vedrai da te, Raul» disse Aenea, con voce piena di lacrime come gli occhi. «Ti prego, vai.»

La corrente cercava di portarmi via, ma con un colpo di pagaia spinsi indietro il piccolo kayak. Aenea camminò lungo la riva, per tenersi alla mia altezza. Il cielo pareva schiarirsi un poco a oriente.

«Sei sicura che ci rivedremo lì?» gridai nella pioggia che diventava meno violenta.

«Non sono sicura di niente, Raul.»

«Neppure che sopravviveremo a questa storia?» Non saprei dire che cosa intendessi con "storia". Non saprei dire nemmeno che cosa intendessi con "sopravviveremo".

«Soprattutto di questo» disse Aenea e vidi il vecchio sorriso, pieno di malizia e di anticipazione e di qualcosa che pareva tristezza mista a involontaria saggezza.

La corrente mi tirava via. «Quanto tempo impiegherò per arrivare alla nave?»

«Solo alcuni giorni, penso» mi gridò Aenea. Ora distavamo vari metri e la corrente mi tirava verso il centro del Mississippi.

«E quando avrò trovato la nave, quanto tempo impiegherò per giungere su… T’ien Shan?» le gridai.

Aenea mi gridò la risposta, ma le sue parole andarono perse nello sciacquio delle onde contro lo scafo del kayak.

«Come?» gridai. «Non ho sentito!»

«Ti amo» gridò Aenea e la sua voce fu chiara e luminosa, sull’acqua scura.

Il fiume mi trascinò via. Non riuscivo a parlare. Quando cercai di pagaiare contro la forte corrente, le braccia non mi risposero. «Aenea?» chiamai. Puntai la torcia verso la riva, scorsi fuggevolmente il poncho che luccicava nella notte, il pallido ovale del suo viso nell’ombra del cappuccio. «Aenea!»

Lei gridò qualcosa, agitò il braccio. Risposi al saluto.

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