Prendo una camicia, una di quelle di Trorbe, ma ora appartiene a suo fratello Ley, zio di Raul. Tolgo dalla tasca del grembiule ago e filo e comincio a riattaccare il bottone che Trorbe aveva perso proprio prima della sua ultima spedizione di caccia su a nord. Divento rossa, al pensiero che ho dato a Ley la camicia senza un bottone. «Mi consigliano di accettare la croce» rispondo.
«Non c’è una cura?» dice nonna. «Con tutte le loro macchine e i loro sieri?»
«Una volta c’era. Ma si basava sulla tecnologia molecolare…»
«Nanotec» dice nonna.
«Sì. La Chiesa l’ha messa al bando qualche tempo fa. Sui pianeti più progrediti ci sono altre cure.»
«Ma su Hyperion non ci sono» dice nonna. Mette da parte gli indumenti che aveva in grembo.
«Già.» Mentre parlo, mi sento molto stanca, ho ancora un po’ di nausea per gli esami e per il viaggio, e molto calma. Ma anche tanto triste. La brezza mi porta le risate di Raul e degli altri bambini.
«E consigliano di accettare la croce» dice nonna. L’ultima parola pare tronca e tagliente.
«Sì. Ieri un giovane prete molto gentile mi ha parlato per delle ore.»
Nonna mi guarda negli occhi. «E tu accetterai la croce, Kaltryn?»
Ricambio lo sguardo. «No.»
«Sei sicura?»
«Sicurissima.»
«Trorbe sarebbe di nuovo vivo e con noi, ora, se la scorsa primavera avesse accettato il crucimorfo come supplicava il missionario.»
«Non il mio Trorbe!» dico e giro la testa. Per la prima volta da quando sono iniziati i dolori, sette settimane fa, piango. Non per me, lo so, ma perché rivedo Trorbe sorridere e salutarmi col braccio, quel suo ultimo giorno, al levar del sole, prima di andare con i fratelli a caccia di ribonie di palude vicino alla costa.
Nonna mi tiene la mano. «Pensi a Raul?»
Scuoto la testa. «Ancora no. Fra qualche settimana non penserò ad altro.»
«Non ti devi preoccupare per lui» dice piano nonna. «Non ho ancora dimenticato come si allevano i bambini. Ho sempre storie da raccontare e cose da insegnare. E terrò vivo in lui il ricordo di te.»
«Sarà ancora così giovane, quando…» Mi interrompo.
Nonna mi stringe forte la mano. «I giovani ricordano più a fondo» dice piano. «Quando siamo vecchi e incerti, rivediamo con maggiore chiarezza proprio i ricordi dell’infanzia.»
Il tramonto è brillante, ma offuscato dalle mie lacrime. Tengo la testa girata a mezzo, per non incontrare lo sguardo di nonna. «Non voglio che mi ricordi solo da vecchio. Voglio vederlo… ogni giorno… vederlo giocare e crescere.»
«Ricordi la poesia di Ryokan che ti insegnai quando avevi solo qualche mese più di Raul?»
Non posso fare a meno di ridere. «Mi hai insegnato decine di poesie di Ryokan, nonna.»
«La prima» dice lei.
Mi basta un momento per ricordarla. La recito, evitando il tono cantilenante, proprio come nonna mi insegnò quando avevo qualche mese più di Raul adesso:
«Quanto sono felice
mentre man nella mano
vado con i miei bimbi
a cogliere verdure
nei campi a primavera!»
Nonna ha chiuso gli occhi: vedo quant’è sottile la pergamena delle sue palpebre. «Quella poesia ti piaceva, Kaltryn.»
«Mi piace sempre.»
«E dice qualcosa sulla necessità di raccogliere verdure la prossima settimana o il prossimo anno o fra dieci anni, per essere felice adesso?»
Sorrido. «Per te è facile dirlo, vecchia» replico, con voce bassa e affettuosa per addolcire la mancanza di rispetto nelle parole. «Tu stai raccogliendo verdure da settantaquattro primavere e conti di continuare per altre settanta.»
«Non ne verranno così tante, credo.» Mi dà un’ultima stretta e mi lascia la mano. «Ma la cosa importante è andare con i bimbi adesso, nel sole di questa sera primaverile, e raccogliere in fretta le verdure, per la cena di stasera. Preparo la tua minestra preferita.»
Batto le mani. «La minestra tramontana? Ma non ci sono i porri.»
«Ci sono, nei prati meridionali, dove ho mandato Lee e i suoi ragazzi a cercarli. Ne hanno una pentola piena. Ora vai a prendere le verdure primaverili da aggiungere alla minestra. Porta con te il tuo bambino e torna prima che sia davvero buio.»
«Ti voglio bene, nonna.»
«Lo so. E Raul ti vuole bene, piccolina. Penserò io a fare in modo che il cerchio non si spezzi. Vai, ora, presto.»
Mi sveglio in caduta libera. Sono sempre stato sveglio. Le foglie dell’Albero Stella hanno fatto ombra alle capsule per la notte e le stelle sul lato esterno del sistema risplendono. Le voci non diminuiscono. Le immagini non svaniscono. Non è come sognare. È un gorgo di immagini e di voci… migliaia di voci in coro, tutte schiamazzanti per farsi udire. Fino a questo istante non ho mai ricordato la voce di mia madre. Quando il rabbino Schulmann gridava in polacco della Vecchia Terra e pregava in yiddish, ho capito non solo la sua voce, ma anche i suoi pensieri.
Divento pazzo.
«No, amore mio, non diventi pazzo» bisbiglia Aenea. Galleggia con me accanto alla calda parete della capsula, mi tiene stretto. Il cronometro del comlog mi dice che il periodo di sonno in questa regione della biosfera Albero Stella è quasi terminato, che fra meno di un’ora le foglie cambieranno posizione per lasciar passare la luce del sole.
Le voci bisbigliano e mormorano, discutono e piangono. Le immagini mi svolazzano in fondo alla mente come colori dopo un terribile colpo sulla testa. Sono tutto rigido, serro i pugni, stringo i denti, faccio sporgere le vene del collo, come per resistere a un vento terribile o a un’ondata di dolore.
«No, no» dice intanto Aenea, accarezzandomi la guancia e le tempie. Goccioline di sudore galleggiano intorno a me come una sgradevole aureola. «No, Raul, rilassati. Sei molto sensibile, amore, proprio come pensavo. Rilassati e lascia che le voci smettano. Puoi controllarle, caro. Puoi ascoltarle quando vuoi, zittirle quando devi.»
«Ma non andranno mai via?»
«Non si allontaneranno molto» bisbiglia Aenea. Angeli Ouster aleggiano nella luce del sole al di là della barriera di foglie rivolta alla stella.
«E tu le hai ascoltate fin da quando eri piccolissima?»
«Fin da prima di nascere» mi risponde il mio tesoro.
«Mio Dio, mio Dio» dico, tenendo i pugni sugli occhi. «Mio Dio.»
Mi chiamo Amnye Machen Al Ata e ho undici anni standard, quando la Pax viene nel mio villaggio su Qom-Riyadh. Il villaggio è lontano dalle città, lontano dalle poche autostrade e sopraelevate, lontano perfino dalle carovaniere che incrociano il deserto roccioso e le piane Ardenti.
Per due giorni i cieli della sera hanno mostrato le navi della Pax, puntini simili a braci luminose, passare da est a ovest in quello che secondo mio padre è un posto sopra l’aria. Ieri la radio del villaggio ha trasmesso ordini dell’imam di Al-Ghazali, che sulle linee telefoniche ha saputo da Omar che tutti, nelle terre Alte e nei campi Oasi delle piane Ardenti, devono radunarsi fuori della propria yurt e aspettare. Mio padre è andato alla riunione degli uomini nella moschea dai muri di fango del nostro villaggio.
Il resto della mia famiglia aspetta fuori della nostra yurt, la tenda circolare di pelli. Anche le altre trenta famiglie aspettano. Il nostro poeta locale, Farad ud-Din Attar, gira fra noi e cerca di calmarci recitando versi, ma anche gli adulti sono impauriti.
Mio padre è tornato. Dice a mia madre che il mullah ha deciso: non possiamo aspettare che gli infedeli ci uccidano. La radio del villaggio non è riuscita a mettersi in contatto con la moschea di Al-Ghazali né con Omar. Mio padre pensa che la radio sia di nuovo rotta, ma il mullah crede che gli infedeli abbiano ucciso tutti a ovest delle piane Ardenti.
Sentiamo il rumore di spari davanti alle altre yurt. Mia madre e la mia sorella più anziana vogliono scappare via, ma mio padre ordina loro di restare. Ci sono delle grida. Guardo il cielo, mi aspetto che le navi degli infedeli della Pax ricompaiano. Quando abbasso di nuovo gli occhi, le guardie del mullah girano intorno alla nostra yurt e mettono nuovi caricatori nelle carabine. Hanno un’espressione sinistra.